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domenica 31 maggio 2015

Come combattere la solitudine ... e usarla per ritrovare sé stessi

Come combattere la solitudine...


...e usarla per ritrovare sé stessi!

La solitudine è qualcosa di molto privato, per cui ognuno, per ogni epoca e cultura, ne darà un’interpretazione diversa, positiva o negativa.

Vi è una solitudine sana, in cui riusciamo a entrare profondamente in contatto con noi stessi, a conoscerci e a godere dei momenti vissuti da soli, e una solitudine di cui non si parla, che vive nel proprio intimo e che, a volte, non riusciamo neanche ad ammettere a noi stessi.

Non importa quanto la nostra giornata sia piena, quante persone vedremo o quanti viaggi faremo, la verità è che la solitudine è uno stato della mente, una malattia che divora dall'interno, in silenzio, senza che la persona se ne renda conto.

Si può definire come la sensazione di disagio di un individuo, che sente le sue relazioni interpersonali come meno soddisfacenti di quello che vorrebbe; un desiderio d’intimità che sente come irraggiungibile.

Probabilmente, è un male che attanaglia l’uomo da sempre e che, sempre più, trova modo di dare voce al silenzio con dei surrogati; televisione, tecnologia, dipendenze e tutto ciò che aiuti a non entrare in contatto con il proprio vuoto.

Allora, ci si circonda di persone con cui non si coltivano rapporti autentici, dove non ci sono veri sentimenti ma contatti superficiali, in cui si è vicini, ma non si è insieme, in cui si parla, ma non si comunica, in cui se qualcosa non va andarsene è facile, perché non ci siamo mai stati.

La solitudine è uno dei più gravi fattori di rischio per la salute, provoca profonda sofferenza, ansia, stati depressivi, insonnia, patologie cardiache e tutta una serie di problematiche connesse al tentativo di colmare questa sensazione, come accade con droga, fumo, alcol, cibo, tv, videogiochi ecc..

L’uomo, nutre un vero e proprio bisogno psicologico per il contatto umano e le relazioni profonde e per questo, il primo passo è di diventare consapevoli della propria condizione, smettendo di nascondersi e iniziando a fare qualcosa.

Qualche spunto su cui lavorare:

  • Prendete consapevolezza e sforzatevi di evitare l’isolamento. Concentratevi su cose molto piccole per iniziare, non pensate di dover stravolgere la vostra vita, altrimenti non troverete mai la forza di cambiare. Tenete a mente che la solitudine è una sensazione e non un fatto.

  • Eliminate, più che potete, il pregiudizio. Per nutrire la solitudine vi sarete costruiti molte strategie basate su preconcetti, che vi aiutano a scansare gli altri. La prima impressione però, non corrisponde alla vera identità delle persone, andate oltre.

  • Cercate contatti. Dovete trovare persone che condividono i vostri interessi, ad esempio, potreste iscrivervi al corso che tanto v’interessava e lì, potrete entrare in contatto con gli altri e dedicarvi a qualcosa che vi piace.

  • Lavorate su voi stessi! Avete bisogno di un percorso personale che vi porti a conoscervi meglio e a capire il vostro valore, presente con o senza l’altro.

  • Lavorate sulla vostra fiducia negli altri. Non fidarsi, serve a evitare il rifiuto e la delusione. In realtà, così facendo, metterete l’altro nella posizione di fare proprio ciò che temevate. Se non farete neanche un passo verso l’altro, è più spontaneo che egli vi volti le spalle e se ne vada. Allo stesso tempo, non avanzate pretese esagerate; rischiate di caricare l’altra persona di bisogni solo vostri e di metterlo in fuga. La relazione è qualcosa che si forma a piccoli passi fatti da ciascuno, piano piano, nel tempo.

  • Imparate a perdonare. A volte, qualcosa non funziona e tutte le qualità della persona sembrano scomparire dal vostro ricordo, lasciando spazio solo al negativo. Tutti sbagliamo, cercate di andare oltre all’episodio e osservate la situazione da più prospettive.

  • Adottate un amico! Si è sempre più concordi nel ritenere di grande sostegno psicologico, un animale domestico. Infatti, offrono compagnia, felicità e sicurezza. Provare per credere!

Ricordatevi che, come per ogni cosa, bisogna metterci impegno e pazienza; se sentite di non farcela, chiedete aiuto allo psicologo.

E voi, che cosa ne pensate? Come si potrebbe affrontare la solitudine?

domenica 17 maggio 2015

LA DEPRESSIONE:PROBLEMA SOLO PSICHIATRICO? Relazione presentata dal Dott. Alfredo Ferrajoli nell’Incontro di Aggiornamento per Medici e Psicologi organizzato dall’Associazione Medica Privernate presso il Castello di S. Martino il 12 ottobre 2002

CORPO E DEPRESSIONE piccolo viaggio nella psicosomatica e nelle ricerche psicologiche e psicoanalitiche

Venerdì 18 ottobre 2002 ore 19 Castello di San Martino – Priverno Incontro di aggiornamento 

LA DEPRESSIONE: PROBLEMA SOLO PSICHIATRICO? Relazione presentata dal Dott. Alfredo Ferrajoli nell’Incontro di Aggiornamento per Medici e Psicologi organizzato dall’Associazione Medica Privernate presso il Castello di S. Martinoil 12 ottobre 2002 



Questa relazione tratterà il tema “depressione” attraverso il modello di riferimento analitico derivato dall’approccio reichiano e successivamente arricchito dalla metodica di Alexander Lowen, fondatore dell’analisi bioenergetica e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis (I.I.B.A.) con sede in New York. E’ il modello al quale io faccio riferimento ed è lo stesso, ovviamente, dell’incontro dello scorso anno sugli attacchi di panico.Per descrivere la personalità dei pazienti depressi, A. Lowen riferisce su alcune difficoltà, tipiche e facilmente riscontrabili. Queste difficoltà riguarderebbero la mancanza di “grounding”, la fatica attraverso la quale esse si rapporterebbero con il loro corpo, la perdita della fede nel Sé.Secondo questo caposcuola, essere in “grounding” significa possedere le basi per essere radicato nella vita reale, cosa che mancherebbe nelle persone depresse. Il termine inglese “nobody” per indicare “nessuno”, “nessuna persona” o “non sei nessuno”, “non esisti se non sei o se non hai un corpo”, oppure, alla lettera, “nessun corpo” o “senza corpo”, illustra bene il concetto secondo il quale le persone affette da depressione avrebbero perduto il contatto con il corpo, non abiterebbero più il loro corpo. Quando Lowen afferma, invece, che il paziente depresso ha perso la fede nel sé intende dire che egli non ha più fiducia nella vita e presenta difficoltà di apertura verso di essa e verso il futuro. La fede, per Lowen, è in tal modo configurabile come quel ponte capace di collegare passato e futuro transitando per il presente ed è essenzialmente fede nel Sé. Questo ponte nel depresso sembra essere seriamente danneggiato o, quantomeno, compromesso. E’ il ponte dell’esperienza presente sul quale dovranno essere orientati, allora, gli interventi di psicoterapia.La fede, secondo Lowen, non è solamente fede in Dio o in una religione; per lui la fede “è anche caratteristica dell’essere: dell’essere in contatto con se stesso, con la vita e con l’universo. È senso di appartenenza alla propria comunità, al proprio paese e alla terra. Soprattutto è il senso di avere “grounding” nel proprio corpo, nella propria umanità e nella propria natura animale. Può essere tutte queste cose insieme perché è una manifestazione della vita, un’espressione della forza vitale che unisce tutti gli esseri (A.Lowen 1980, p.162).La terapia ha successo quando fa riacquistare all’individuo la fede in se stesso e lo fa divenire una persona autodiretta, diretta dall’interno, dal suo centro. Negli interventi analitici di bioenergetica partendo dalle sensazioni che provengono dal corpo, dalle emozioni e dai sentimenti in esso depositati, è possibile ristabilirne il contatto perduto e riorientare il soggetto in direzione del Sé, nel fluire esperienziale del tempo.Viktor Frankl, psichiatre austriaco, sopravvissuto agli orrori dei campi di concentramento della Germania nazista, arrivò alla conclusione che solo gli individui per i quali la vita ancora, nonostante la barbarie, continuava ad avere un senso poterono sopravvivere. Morì chi non ebbe più fede nella vita e nel continuare a lottare di fronte alla tortura, alla crudeltà, al tradimento, alle privazioni e alla degradazione, la vita in qusti uomini aveva perso ogni significato.Antoine de Saint-Exupéry nel suo “Volo di notte”, Mondadori 1965 ha descritto molto bene la situazione di crisi personale nella quale si era venuto a trovare e che poté essere superata grazie alla sua fede nella vita. Freud si era reso conto che le convinzioni interiori delle persone potevano influenzarne le attività biologiche. Né lui, però, né altri psicoanalisti seguirono questa traccia e restò a W.Reich il compito di mostrare la connessione diretta fra le funzioni corporee e i vissuti emozionali. Fu questo studioso il primo ad introdurre, nella descrizione della depressione, il termine di “atrofia biopatica” per indicare l’indebolimento dell’apparato vivente fino ad arrivare ad una situazione di collasso energetico.Ogni conflitto psichico avrebbe avuto, secondo questo modello, la sua controparte in un corrispondente disturbo fisico senza esserci separazione tra la sfera psichica e quella somatica; il corpo e la mente venivano ad essere considerati in tal modo due aspetti di un’unica realtà. Se si osserva il corpo di una persona depressa colpisce il fatto della sua scarsa vitalità. Il suo atteggiamento è caratterizzato da difficoltà nel consapevolizzare le limitazioni imposte dalle proprie rigidità muscolari, la motilità è ridotta e la respirazione è fortemente ridotta. Queste persone tendono ad identificarsi nel proprio Io piuttosto che nel loro corpo; si identificano più nella volontà e nella immaginazione che nel vivere pulsante del presente. La vita del corpo che è vita nel presente, è respinta ed è avvertita come irrilevante o come dolorosa e piena di sofferenze. Lowen, per esplicitare il problema depressivo, paragona la depressione alla perdita di aria che può verificarsi in un pallone che sia gonfio. Di fatto, riferisce, è la carica energetica che si muove all’interno di un corpo che conferisce a quel corpo energia e motilità. Un organismo dotato di poca energia possiede un minor livello di eccitazione interna, si muove con fatica, è meno desto e meno pronto nel rispondere alle richieste dell’ambiente.Nelle persone depresse questa carica è presente in maniera limitata e si assiste ad un impoverimento nella capacità del loro sentire interiore e ad una corrispondente perdita di motilità.Esse hanno imparato a reprimere i sentimenti allo scopo di eliminare il dolore.Possiamo parlare pertanto di depressione come di un collasso interno.
 La depressione è “morire dentro”, emotivamente e psicologicamente, e questo spiega perché essa è spesso accompagnata da pensieri, azioni o sentimenti suicidi. Il suicidio secondo Lowen, è l’atto consapevole dell’Io che si rivolta contro il corpo per non essere stato all’altezza dell’immagine che l’Io stesso si era fatta di lui, è l’ultimo atto di aggressione di u Io alterato e onnipotente che non è riuscito ad esprimere i suoi sentimenti veri.Freud in “Lutto e melanconia” riferisce che vi è una relazione significativa tra depressione, suicidio e repressione dell’ostilità e che questa relazione non deve essere trascurata se si vuole comprendere in modo approfondito le dinamiche interne dell’individuo depresso.Secondo Freud, nel lutto è il mondo a diventare povero e vuoto, mentre nella melanconia è l’Io stesso ad essere povero e vuoto.Più tardi, la figlia Anna ebbe modo di verificare come gravi privazioni affettive subite durante la prima infanzia, riattivate durante l’adolescenza, potessero portare perfino al rischio di suicidio che è sempre da intendersi come rinuncia dell’Io alla conservazione di sé.Da sottolineare che in questi ultimi anni il suicidio è in aumento ed è la seconda causa di morte fra gli adolescenti.Se inoltre possiamo considerare le attuali piaghe sociali rappresentate dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza quali comportamenti reattivi al senso di disperazione a cui la depressione espone, siamo anche in grado di comprendere l’alto valore di patogenicità presente nella depressione.Secondo Luigi Pavan, psichiatra italiano, intervistato recentemente da Stefano Lorenzetto (“Il Giornale” 21.07.02), i suicidi oggi non aumenterebbero per un rapporto conflittuale con i genitori, bensì, ancora più grave, per colpa di relazioni estremamente povere di comunicazione.Karl Abraham, dopo anni di studi psicoanalitici, ritenne ce la depressione fosse dovuta alla contemporanea presenza di sentimenti ambivalenti di amore e di odio; in particolare, l’odio non ammesso e rimosso, non elaborato e metabolizzato, poteva essere rivolto, come il sentimento di colpa, all’interno, contro il Sé determinando la depressione.Secondo il modello loweniano, ed anche secondo John Bowlby che vedremo in seguito, l’espressione del disappunto, dell’ostilità, della rabbia per una perdita avvenuta è utile all’individuo per elaborare in modo appropriato la sua condizione interiore di sofferenza e di lutto.Nei pazienti depressi spesso troviamo che essa viene razionalizzata.“A cosa serve protestare se nulla potrà cambiare?”, riferiscono questi pazienti nelle sedute. Come ben sappiamo l’elaborazione del lutto non ha questo scopo, essa non può cambiare una condizione esterna reale. Elaborare un lutto o una condizione di sofferenza estrema è concedersi l’espressione di un sentimento che potrà consentire alla vita di procedere. Se l’espressione di questi sentimenti viene trattenuta, il flusso della vita subirà tensioni e limitazioni che potranno portare l’individuo alla depressione.Attraverso metodiche psicocorporee sarà possibile rendere consapevole il paziente di come il suo vissuto depressivo influenzi la personalità nella sua totalità. Questa operazione di “contatto con se stessi”, molto delicata dal farsi, può essere non esente da dolore psichico poiché suscita sentimenti e sensazioni che erano state represse perché diventate insopportabili. Il problema terapeutico nella relazione con questi pazienti sta nel ristabilire in loro la progettualità esistenziale e far sviluppare la capacità di provare piacere, compito non facile dato che queste persone sono sì affamate di piacere ma non in grado, spesso, di percepire tale fame. Lavorare sul corpo facilita il ricordo delle memorie rimosse e dei sentimenti repressi. Antonietta, una paziente, controllando la sua respirazione era in grado di mantenere sopito il dolore psichico, fu fondamentale renderla consapevole di questa relazione ed avviarla a sviluppare una respirazione più profonda che fosse collegata a dei vissuti personali. Contemporaneamente al lavoro sul corpo cominciai l’analisi delle sue reazioni comportamentali legandole dapprima alla sua sfera emotiva in seguito allo sviluppo della capacità di comprendere la propria situazione, il possibile significato e cause. Nell’arco di poco tempo, partendo dalla consapevolezza del proprio corpo, Antonietta progredì fino a sentirsi più viva e più incline alla speranza. Era riuscita ad arrendersi al corpo e alle sensazioni ed emozioni che da esso provenivano. Prima di sottoporsi alla metodica analitica bioenergetica, ella aveva cercato di uscire dalla depressione facendo leva sul suo amor proprio, sulla sua forza di volontà e sul distrarsi nel compiere azioni. Questi comportamenti non aiutarono Antonietta poiché, date le condizioni depressive, non potevano fare affidamento sulla necessaria base energetica. La volontà, avverte Lowen, ha un grande valore ai fini della sopravvivenza, ma nessun valore ai fini del piacere. Nelle persone depresse la volontà non può aiutarle a ritrovare l’equilibrio, esse piuttosto hanno bisogno di essere dirette nella ricerca attiva del piacere che nella loro vita hanno perso. Per ottenere che questa paziente affrontasse se stessa in maniera autentica bisognava aiutarla ad ascoltare il proprio corpo: esso era rigido, contratto, immobile e spaventato. A livello fisico, il problema di Antonietta era quello di accettare la sua rigidità, a livello psicologico di accettare la solitudine, la tristezza e la paura. L’aumento della rigidità aveva portato Antonietta ad una riduzione della capacità di risposta del suo organismo e ad una difficoltà nell’utilizzare le sue potenzialità e la sua energia. Antonietta era inoltre incapace di rilassarsi a causa dei suoi blocchi e delle sue forti tensioni. Aveva seguito in precedenza, prima di rivolgersi a me, un corso di tecniche di rilassamento – il training autogeno – ma senza successo per le ragioni specificate.Man mano che la consapevolezza procedeva si concedeva, nella terapia, più spazio alla riflessione interiore e veniva fatta sempre più luce sull’origine delle sue tensioni.“Sono sempre più consapevole del mio corpo”, osservò durante una seduta, “sento che il cedimento delle mie rigidità è un fatto positivo, che vivo in modo intenso e sento importante ai fini del mio star bene”, espresse nel corso di un’altra.Nella sua vita infantile anch’essa, come tante persone depresse, era stata privata della soddisfazione dei suoi bisogni ed aveva perduto quella capacità che Lowen individua nel protendersi e nell’aprirsi al piacere. Uno dei primi analisti, Karl Abraham mise in relazione la depressione dell’età adulta con la depressione primaria nell’infanzia. Secondo questo studioso, vissuti emozionali con caratteristiche depressive sorte da esperienze infantili di frustrazione esporrebbero questi bambini, una volta divenuti adulti, alla depressione maniaco-depressiva. Secondo B.Bettelheim, uno dei massimi esponenti di psicologia infantile, i comportamenti a rischio di adulti e adolescenti che mettono in pericolo la loro vita rappresenterebbero tentativi disperati di mettere a tacere la loro voce interiore di autovalutazione negativa: non vali niente, sei una nullità, convincimenti interiori originati da esperienze infantili che avevano fatto sentire al bambino come il suo corpo, e con il suo corpo la sua persona, non avesse alcun valore (Un genitore quasi perfetto, p.208).Il fenomeno della depressione infantile fu in seguito studiato da Melanie Klein che curò con la psicoanalisi un buon numero di bambini piccolissimi. René Spitz osservò invece lo sviluppo dei bambini in seguito alla perdita della madre. I bambini sottoposti alla sua osservazione dopo tre mesi di separazione tendevano a presentare rigidità muscolari nel corpo, in particolare sul viso e lungo la colonna vertebrale, e il pianto, come reazione iniziale, veniva sostituito da piagnistei ai quali seguiva letargia. Se la separazione non cessava, i bambini entravano in uno stato di ritiro dal mondo che Spitz definì “depressione anaclitica”, per distinguerlo dalla reazione depressiva degli adulti, ma fece notare che nel loro atteggiamento corporeo e nel loro comportamento questi bambini piccoli mostravano caratteristiche che potevano riscontrarsi nella depressione degli adulti. Egli poté teorizzare questa depressione come il risultato di un distacco, traumatico, del Sé nascente dal non Sé con il quale il bambino era fino ad allora fuso. John Bowlby osservò casi di separazione prolungata e confermò le conclusioni alle quali era giunto Spitz. In particolare dai suoi studi risultò che i bambini in primo tempo tendevano a protestare e cercare in tutti i modi di riavere la madre, in seguito essi assumevano atteggiamenti di disperazione passando da crisi di pianto sconsolato a pianti monotoni ed intermittenti con perdita di peso e arresto dello sviluppo; dopo questo stadio essi assumevano un atteggiamento di distacco-rifiuto, divenendo abulici e ripiegati su se stessi, continuavano a perdere peso e a contrarre malattie con facilità; successivamente poteva subentrare una fase caratterizzata da arresto irreversibile dello sviluppo intellettivo fino ad arrivare ad uno stato di marasma. Questo studioso sostenne che quando un bambino o un adulto reagisce con rabbia di fronte ad una situazione reale di perdita egli sta reagendo in modo naturale e perfettamente normale. Egli scrive: “lungi dall’essere patologica, questa manifestazione suggerisce l’idea che l’espressione aperta di questo bisogno così imperioso e potente, per quanto irrealistica e disperata possa essere, è una condizione necessaria affinché l’espressione del cordoglio compia il suo corso normale. Solo dopo che sia stato compiuto ogni sforzo per recuperare l’oggetto perduto, sembra che l’individuo sia nello stato d’animo di ammettere la disfatta e di orientarsi di nuovo verso un mondo in cui la mancanza dell’oggetto amato è accettata come irreversibile” (p. 109).A sostegno delle tesi di Spitz e di Bowlby, ci sono i lavori che H.Harlow condusse nel 1959. Egli mise a punto una situazione sperimentale in cui vennero utilizzati due manichini: uno di fil di ferro, munito di biberon e l’altro di peluche, privo di biberon. Questi manichini vennero messi all’interno di una gabbia dove vivevano fin dalla loro nascita alcune scimmiette. Harlow si accorse che i piccoli di scimmia restavano con le madri “fredde”, quelle fatte di fil di ferro, soltanto il tempo necessario per prendere il latte, mentre trascorrevano gran parte del loro tempo avvinghiate alla madre soffice, di peluche.Questo esperimento, allora celebre, segnò una tappa importante per la comprensione dello sviluppo del legame di attaccamento: esso, oltre ad essere in relazione con il soddisfacimento orale, è anche, soprattutto, legato alla soddisfazione di un bisogno molto forte presente nelle prime fasi della vita che coincide con il desiderio di disporre di un contatto fisico “caldo”, rassicurante e protettivo.Gli studi finora condotti hanno mostrato che tanto i neonati della specie umana quanto quelli di scimmia hanno bisogno, per “funzionare normalmente”, del contatto fisico con il corpo della madre. Questo contatto carica la pelle di sensibilità e stimola la comunicazione tra la madre e il bambino a livello tonico muscolare. Se questa relazione, avverte Ashley Montagu, medico e studioso di antropologia, è vissuta in modo piacevole e gratificante dal bambino, essa è un antidoto alla depressione e prepara il bambino ad aprirsi alla vita.Importante poi è la relazione visiva che si instaura tra neonato e madre.La ricchezza dei sentimenti espressi dallo sguardo della madre, e dal bambino ricambiati, danno inizio allo sviluppo del senso del sé, dell’autostima e delle funzioni emozionali, vere e solide basi per lo sviluppo delle competenze cognitive.I comportamenti, poi, amorevoli della madre che Winnicott definì “sciocchi”, ma ricchi di contatto affettivo, consolideranno e approfondiranno la significatività della relazione madre-bambino caratterizzando lo sviluppo di quella fase che gli psicologi dell’età evolutiva hanno individuato nel periodo, o fase, dell’attaccamento.Sviluppando la consapevolezza di essere a contatto con il corpo della madre, il bambino viene in relazione con il proprio corpo e ciò prepara lo sviluppo del suo sé corporeo e, conseguentemente, della sua identità. A tal proposito, Lowen avverte che “ un buon orticoltore ritarderà la crescita di una pianticella per favorire lo sviluppo del sistema di radici” (A.Lowen 1980, p.179).In particolare, egli si schiera contro l’attuale atteggiamento, secondo lui pseudoeducativo dei genitori che caratterizzato com’è da massicce stimolazioni volte ad ottenere una rapida crescita cognitiva trascurerebbe le necessarie funzioni di appoggio e nutrimento invece indispensabili per il rinforzo delle radici nei loro bambini.Come già riferito, secondo l’analisi bioenergetica, le frustrazioni e la sofferenza fanno contrarre il corpo, in particolare l’energia che viene ritirata dalla superficie del corpo viene concentrata nell’apparato muscolare ristagnando in tensioni e blocchi. Se essa non viene completamente scaricata l’individuo può bloccarsi rispetto alla possibilità di protendersi di nuovo verso il piacere, in altre parole, secondo questo approccio, l’individuo avrebbe la possibilità di sviluppare i sintomi di una depressione.Compito principale della psicoterapia analitico-bioenergetica è aiutare il paziente a riacquistare la capacità di provare piacere.Nella storia della vita di adulti depressi troviamo sempre esperienze infantili predisponenti e comunque significative e frustranti. L’avvenimento del passato che più di altri predisporrebbe alla depressione è la perdita, reale o no, di un oggetto d’amore, spesso individuato nella madre, condizione dolorosa che può essere riattivata nella vita adulta allorché un’illusione crolla di fronte alla realtà causando nell’Io un vuoto per la perdita subita. Gli interventi psicosociali di prevenzione primaria, allora, per raggiungere in modo maggiormente efficace bambini e adolescenti, andrebbero calibrati su genitori e insegnanti al fine di prevenire quegli atteggiamenti e quelle condotte, che alla luce di questi studi, non sono in grado di aiutare, bambini e ragazzi, a crescere in modo sano. Secondo Freud, in “Contributi a una discussione sul suicidio” (1910), in particolare la scuola, specialmente quella secondaria, dovrebbe creare negli alunni il piacere di vivere, offrire appoggio e sostegno e non dovrebbe mai dimenticare di aver a che fare con individui ancora immaturi ai quali non sarebbe lecito negare il diritto di indugiare.

Questo lavoro è parte di uno studio maggiormente approfondito. Per chi volesse consultare o avere per sé la copia integrale, non ridotta, come questa, può fare riferimento a me.

Relazione presentata dal Dott. Alfredo Ferrajoli nell’Incontro di Aggiornamento per Medici e Psicologi organizzato dall’Associazione Medica Privernate presso il Castello di S. Martinoil 12 ottobre 2001


PROFILO BREVE DELL’AUTORE Dopo aver conseguito la laurea in Psicologia (indirizzo applicativo), presto servizio presso il Centro di Salute Mentale della ASL di Priverno (LT) ricoprendo sia le funzioni di psicologo dipendente convenzionato che le mansioni di psicoterapeuta.Allo scopo di continuare la mia crescita personale e professionale decido li lasciare l’incarico lavorativo alla ASL e mi stabilizzo a Roma dove inizio la collaborazione con una cattedra universitaria, nel frattempo continuo ad esercitare la professione e mi specializzo, dopo aver conseguito vari Perfezionamenti e Specializzazioni a carattere accademico, prima in Medicina Psicosomatica (specializzazione quadriennale) poi in Analisi Bioenergetica (specializzazione quadriennale aut. MIUR).Tra il conseguimento della prima e la seconda specializzazione realizzo un mio antico desiderio: quello di intraprendere l’insegnamento presso Scuole Superiori avendo superato le prove del Concorso in Igiene Mentale e Psichiatria infantile e le prove del Concorso in Psicologia sociale.Inizio la mia collaborazione con l’Istituto di Analisi Bioenergetica Italiano (IABI) assumendo incarichi di docenza.Mi specializzo ulteriormente in Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza conseguendo il Diploma Accademico di Alta Formazione presso il Centro di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Roma (Scuola di Specializzazione Aut. MIUR).Vivo a Priverno, lavoro a Sezze come docente ISISS ed esercito la professione di psicologo-psicoterapeuta a Priverno e a Latina.Alfredo Ferrajoli alfredoferrajoli@alice.it

venerdì 8 maggio 2015

Altra novità per la chat di Psicologia-In-Chat!




Altra novità per la chat di Psicologia-In-Chat! Da oggi è possibile accedere alla chat direttamente da facebook, attraverso l'applicazione "Chat IRC"! Basterà semplicemente cliccare sul tasto presente nella home della pagina, inserire un nickname e chattare insieme a noi!

Link della Pagina Facebook:

https://www.facebook.com/pages/Psicologia-In-Chat/853316151374013

giovedì 7 maggio 2015

AVVISO AGLI UTENTI CHE HANNO AVUTO PROBLEMI CON L' INGRESSO IN CHAT.





In seguito alle segnalazioni di alcuni utenti con l' ingresso in Chat dall' apposita sezione del Blog Psicologia In Chat, lo Staff comunica:
Di non avere nessuna responsabilità per il disaggio creatosi e che ha comunicato a chi di dovere il problema verificatosi confidando in una sua tempestiva risoluzione.
Nel frattempo consigliamo a quanti avessero avuto questo problema di effettuare l' accesso in Chat tramite il seguente link: 

Entra in Psicologia In Chat

Per tutti gli altri utenti che non hanno riscontrato il problema si consiglia di continuare ad utilizzare l' ingresso presente sul Blog precedentemente utilizzato.
In attesa di ulteriori sviluppi ci scusiamo per il disagio. Lo Staff di Psicologia-In-Chat

martedì 5 maggio 2015

Psicologia In Chat su Facebook!




Lo staff di Psicologia In Chat è lieta di comunicare a tutti i suoi fan e utenti una nuova possibilità di interagire con lo staff, gli psicologi e tutti gli utenti: mandate i vostri messaggi qui in bacheca o tramite messaggio privato, con le vostre domande, dubbi o altro. Potete anche restare anonimi specificandolo nel messaggio. 
Lo staff provvederà a pubblicarlo in pagina così che tutti possano visualizzarlo e rispondere! 



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Articolo a cura della Dott.ssa Eleonora Inglima: La Valenza Psicologica di una Risata: perché ridere fa bene alla salute

La Valenza Psicologica di una Risata: perché ridere fa bene alla salute


Ridere fa bene alla salute. Una fragorosa risata attiva cuore, cervello, muscoli e aumenta l’ autostima e la capacità di affrontare le difficoltà quotidiane. Numero studi (Università di Oxford, Giappone, Maryland, ecc.) hanno dimostrato che ridere ha effetti benefici sulla salute sia fisica che mentale. 
La risata, infatti, stimola la produzione di endorfine, sostanze chimiche prodotte dal nostro cervello, in grado di indurre un senso di rilassatezza ed euforia e  riduce gli ormoni dello stress permettendo al nostro corpo di disintossicarsi. Inoltre aiuta ad abbattere la rigidità degli schemi mentali che spesso ci impediscono di cambiare prospettiva facendoci rimanere impantanati in una data situazione problematica o di disagio, con l’idea costante che non sia possibile trovare una soluzione o una via di uscita.
La rottura di schemi mentali statici e poco elastici ci consente di essere creativi, originali, di essere flessibili e di conseguenza ci consente di individuare una molteplicità di punti di vista. Un pensiero serioso e pedante, infatti, ci rende ripetitivi, crea fissazioni e ossessioni e, alla lunga, causa stress e ansia, impedendoci la visione alternativa del problema. Una bella risata, di contro, nutre il cervello, libera sostanze che hanno una funzione benefica sul nostro organismo in quanto permettono l’ossigenazione di sangue e tessuti e migliorano il tono dell’umore.
Ridere è una capacità tipicamente umana, innata in ognuno di noi e se spesso ci dimentichiamo degli effetti benefici della risata ciò è dovuto ad un sistema culturale che sempre di più premia la serietà e la sobrietà, associando al ridere solo aspetti ludici o di immaturità. In realtà la condivisione di un’esperienza divertente contribuisce a instaurare relazioni con le altre persone ed è un segnale comunicativo importante che permette la vicinanza con l’altro. La risata, infatti, ha una natura sociale, avvicina le persone, riduce l’ansia e facilita i rapporti umani.  E’ più facile essere accettati se si è capaci di humor, di sdrammatizzare le situazioni dolorose, di scaricare il nervosismo e ed entrare in relazione con gli estranei. Il sorriso agisce da facilitatore nei rapporti sociali ed è un ottimo coadiuvante anche nella sopportazione del dolore e degli stati di disagio in genere.
Per tali motivi negli ultimi anni nasce la Terapia del sorriso (Clown-terapia) particolarmente indicata in ambito ospedaliero e nell’approccio con i bambini. Tale terapia parte dall’assunto che la risata abbia effetti analgesici, in quanto innalza la soglia di sensibilità al dolore e distoglie la nostra attenzione da quest’ultimo.
Ridere dunque è davvero salutare e già Freud, nei primi del 900, affermava che l’humor fosse un mezzo per ottenere piacere nonostante le avversità della vita, uno strumento capace di combattere la sofferenza e un meccanismo di protezione e difesa.
Una risata al giorno dunque ci permette di scaricare la tensione, migliorare l’attività cardiaca e polmonare, trovare nuove soluzione, stringere rapporti sociali….in sintesi di Vivere Meglio. 

lunedì 4 maggio 2015

Articolo a cura della Dott.ssa Chiara Grimaldi Lattari sulla Pedofilia Femminile

La pedofilia femminile



Con il termine pedofilia, intendiamo una tendenza sessuale che si può manifestare in atti o fantasie, 
verso soggetti che, per la tenera età, non presentano ancora le caratteristiche esteriori di sessualità 
(Coluccia&Calvanese, 2007).
Secondo la dottoressa Petrone, la donna, nel momento in cui diviene madre, diventa 
improvvisamente depositaria di un insieme di sentimenti fortemente ambivalenti, infatti ai 
sentimenti di amore si va sempre ad affiancare un rifiuto ed un conflitto nei confronti dei suoi figli, 
che genera fastidio ed in alcuni casi l’odio. 
La donna è, da sempre, vista come la depositaria del potere di creare la vita dentro di sé, ma fare la 
madre non è affatto istintivo, è infatti un’attività molto complessa, che richiede l’apprendimento di 
comportamenti e tecniche specifici, ci vuole perciò del tempo per migliorare e sono ammesse delle 
difficoltà.
Durante la gravidanza, ogni madre si crea un ritratto mentale del suo bambino, che alla nascita non 
corrisponderà quasi mai alla realtà; è quindi necessario che la madre accetti il suo bambino per 
quello che è e non per l’immagine che si era costruita.
Ogni relazione umana è ambivalente; nella neo-mamma, ai sentimenti positivi si affiancano 
sentimenti negativi, generati anche dai cambiamenti di ritmi, abitudini, dalla paura di perdere i 
propri spazi ed i propri confini personali.
Come potrebbe una donna, una madre, approfittare del suo bambino o di un’altra creatura che 
ancora non è in grado di difendersi? 
Proprio per quest’idea che la società occidentale ha della donna, il fenomeno della pedofilia 
femminile è rimasto da sempre una problematica sommersa, pur essendo un fenomeno sempre più 
comune, che colpisce in tutte le tipologie di ambienti, senza fare distinzioni di sesso e ceto sociale. 
Secondo Valcarenghi, almeno il 7% dei casi di pedofilia sarebbe commesso da una donna e secondo 
la psicoterapeuta Loredana Petrone, 8 casi su 100 riguarderebbero una donna pedofila. I dati parlano 
chiaro: il 78% dei maschi pedofili riferisce un passato di abusi subiti da figure femminili, in 
particolare dalle madri. 
Fra i dati presentati in precedenza, che vedevano la percentuale di donne pedofile pari al 7%, ed il 
78% appena dichiarato, c’è perciò una forte discrepanza; la stima precedente si rifà infatti ai dati 
rilevati dalle denunce e dalla Magistratura.
E’ sempre stata presente, fin dall’Antica Grecia, con le sue tiasi, in cui le bambine di alta estrazione 
sociale, venivano educate dalle loro insegnanti, non solo alle arti, ma anche al piacere sessuale. 
Ai giorni nostri, la pedofilia femminile è rintracciabile, in percentuali nettamente ragguardevoli, nei 
contesti intrafamiliari, dove le bambine ed i bambini vengono abusati proprio da quelle figure, che 
dovrebbero ragionevolmente prendersi cura di loro e proteggerli dai pericoli del mondo esterno: è 
proprio questa familiarità con l’abusante che crea al bambino la confusione maggiore, in quanto è 
portato istintivamente ad essere legato alla sua figura di accudimento ed è proprio per questa 
ragione e per i sensi di colpa che la violenza genera nel minore, che quest’ultimo è portato a 
mantenere per anni, spesso per tutta la vita, il riserbo ed il silenzio sulla relazione abusante, nel suo 
nucleo familiare.
Nei contesti extrafamiliari, la pedofilia femminile si è legata al turismo sessuale, per praticare il 
quale le donne si macchiano, oltre che della violenza e dell’abuso sul minore, anche dell’orribile crimine di iniettare ormoni nei testicoli del bambino in questione, per poter praticare un rapporto 
sessuale soddisfacente, previo pagamento di un compenso alla famiglia del bambino.


La pedofilia si è anche adattata alla tecnologia: si può notare, che negli ultimi anni sono in costante 
aumento sia i siti web pedopornografici, che si rivolgono alle donne, sia le chat room ed i forum 
tramite cui le pedofile entrano in contatto con le loro giovani vittime.
Queste donne sono nella gran parte dei casi reduci da abusi infantili, che le portano, giunte all’età 
adulta, ad assumere a loro volta il ruolo di abusanti: maltrattano i loro bambini per vendicarsi dei 
maltrattamenti subiti dalla propria madre; introiettano i sentimenti di odio verso il proprio genitore 
abusante, sviluppando spesso una reazione depressiva: la violenza si interiorizza e chi ne è stato 
oggetto per lungo tempo, non conosce altre modalità espressive.
La pedofilia femminile si avvale di tecniche seduttive nell’approccio con la vittima: la donna 
abusante entra in contatto con il mondo interiore del bambino, conosce i suoi gusti ed è conscia 
delle carenze affettive, che solitamente hanno i minori che divengono oggetto delle sue attenzioni.
L’abusante è infatti più orientata a conquistarsi le attenzioni di bambini, che non si collocano in una 
rete sociale ed affettiva valida: sceglie bambini che abbiano bisogno di affetto, di cure, di attenzioni 
ed è proprio su queste necessità del bambino che la donna imposta il rapporto disfunzionale, una 
relazione che vede come un’espressione di vero e profondo amore nei confronti del bambino (a 
meno che, non sia presente una componente di personalità sadica), che viene poi abbandonato, una 
volta sviluppati i caratteri secondari della sessualità.
La relazione è asimmetrica ovviamente: il bambino è alla ricerca di amore e protezione, mentre la 
donna vuole soddisfare i propri impulsi. 
Nei bambini abusati sessualmente, i disturbi sono reattivi ed aspecifici e possono riguardare vaste 
aree della personalità, poiché l’abuso è un evento traumatico e stressante, che provoca una 
condizione di crisi nel minore.
Il bambino non è in grado di elaborare a livello cognitivo l’abuso, in quanto una persona tende a 
percepire la realtà e ciò che le accade attraverso una serie di filtri emotivi, che sono il frutto delle 
sue esperienze di vita, passata e presente. 
Le emozioni rappresentano l’elemento che serve a fissare i ricordi, che vengono così archiviati, 
attraverso una codifica di tipo emotivo: se il bambino non può codificare la violenza, questa verrà 
rimossa e relegata nel suo inconscio, dai meccanismi di difesa.
Le conseguenze possono andare ad inficiare, oltre all’area psicologica, anche lo stile di vita ed i 
rapporti interpersonali e sociali.
Alcune delle problematiche più frequenti associate all’abuso sessuale sui minori sono: vissuto di 
tradimento, sfiducia nei confronti del prossimo, bassa autostima, senso di inadeguatezza, 
disfunzioni della sfera sessuale, ansia e depressione, disturbi psicosomatici, senso di rivalsa e 
prevaricazione, problemi interpersonali, comportamenti di acting-out, disturbo acuto da stress, 
disturbo post traumatico da stress.
Risulta fondamentale, quindi, il sostegno che il bambino dovrà avere a livello sia terapeutico che 
familiare al fine di poter elaborare l’esperienza d’abuso, non essendo ancora, per la sua personalità 
in costruzione, in grado di comprendere a pieno, emotivamente e cognitivamente, l’esperienza.
E’ importante perciò effettuare un intervento di prevenzione a livello familiare, scolastico e sociale, 
per creare una rete di protezione e sostegno, a 360° , intorno ai bambini.
L’intervento sull’abusante può essere effettuato solo una volta che la violenza è già stata portata a 
termine: è preferibile che la valutazione clinica venga effettuata in un’ottica sistemica in quanto, dagli studi emerge che nel passato dei pedofili sia spesso presente una storia di abusi e/o 
maltrattamenti, prevalentemente a livello familiare.


La terapia cognitivo-comportamentale si pone come obiettivo la modifica della sessualità deviata, 
attraverso il trattamento del livello di arousal sessuale deviante, il trattamento delle distorsioni 
cognitive, il trattamento del disturbo del controllo affettivo.
La terapia comportamentale ha come obiettivo primario l’eliminazione dell’eccitazione sessuale 
abnorme, attraverso il potenziamento di resistenze agli impulsi sessuali. Utilizza tecniche come la 
terapia avversiva, il condizionamento orgasmico, la terapia della vergogna e la covert sensitization.
La terapia familiare, che è indicata nei casi di abuso intrafamiliare, ha lo scopo di riaggregare e 
rendere maggiormente efficiente il nucleo familiare disfunzionale, tramite una modifica dei modelli 
interazionali e comunicativi.
La psicoterapia psicodinamica di gruppo si basa sul principio d’intervento utilizzato nei gruppi di 
autoaiuto, come quelli degli Alcolisti Anonimi o dei Tossicodipendenti.
La terapia medico-farmacologica, che spesso è somministrata in associazione al ricovero in 
ospedale, è stata recentemente modificata: si è passati dalla prescrizione di neurolettici ad una 
terapia a base di litio, imipramina e fluoxetina, con risultati discreti per quanto riguarda l’aspetto 
compulsivo del disturbo.
La psicoterapia ipnotica si propone di far maturare gli elementi caratterizzanti lo sviluppo 
pulsionale libidico del soggetto, tramite interventi specifici di formazione, evoluzione e/o inibizione 
o sostituzione dei referenti, che permettono l’attivazione emotivo-pulsionale.
Il trattamento avviene senza mai attaccare direttamente il sintomo o il comportamento deviante, che 
dopo la psicoterapia ipnotica, dovrebbe sparire fisiologicamente.
E’ quindi evidente che il trattamento della pedofilia femminile si basa sostanzialmente su un 
tentativo di diminuire l’impulso sessuale deviante dell’abusante, fatta eccezione per la terapia 
cognitivo-comportamentale, che punta alla modificazione della sessualità deviata della pedofila.
Devianza, crudeltà, abusi e violenze non hanno sesso, non sono tipicamente maschili o femminili, 
per comprenderli, dobbiamo imparare a concepire ogni singolo atto e comportamento “criminale”, 
come espressione di una personalità che si è formata in un contesto fatto di relazioni, interazioni ed 
esperienze e il fatto che sia donna o uomo non conta, conta solo l’essere umano in tutta la sua 
complessità.


Bibliografia
Coluccia A., Calvanese E., Pedofilia. Un approccio multiprospettico, Franco Angeli, Milano, 2007.
Olver M.E. & Wong S.C. (2009), Therapeutic responses of psychophatic sexual offenders: 
treatment attrition, therapeutic change and long-term recidivism, Journal of Consulting and 
Clinical Psychology, 77(2), 328-336.
Petrone L., Troiano M., E se l’orco fosse lei? Strumenti per l’analisi, la valutazione e la prevenzione 
dell’abuso al femminile, Franco Angeli, Milano, 2005.
Valcarenghi M., Ho paura di me. Il comportamento sessuale violento, Bruno Mondatori, Milano, 
2007.

venerdì 1 maggio 2015

Articolo a cura del Dott. Smaldone : Ansia e Attacchi di panico. Che succede?

Ansia e Attacchi di panico. Che succede?

Durante la nostra vita ci siamo trovati spesso faccia a faccia con l’ansia e, non tutti fortunatamente, con gli attacchi di panico. Partiamo dall’ansia. L’ansia è uno stato di agitazione che tutti hanno sperimentato nella propria vita. E’ un eccitamento fisiologico dell’organismo. In genere quando ci sentiamo in ansia stiamo sempre in uno stato di allerta, ingigantiamo le cose, viviamo le situazioni con una carica emotiva quasi assillante e discordante con quella che la realtà è. Quante volte abbiamo detto: “E ora? Che succede?” – “Ce la farò?” – “Andrà bene così?”. Perls afferma:

“La persona che soffre d’ansia è orientata al futuro, un futuro che viene percepito come catastrofico.”

Quindi rivolgendo il suo sguardo al futuro cosa evita? Il presente, il qui ed ora. Infatti, è il tentativo dell’essere umano, di distogliere l’attenzione da quello che sta provando veramente e di coprire l’emozione che sente facendosi ansioso.
Chi invece ha sperimentato nella propria vita un attacco di panico sa bene che in genere è improvviso, inaspettato, spaventoso a volte accompagnato dal terrore di morire. Inoltre, il timore che possa presentarsi nelle volte successive spesso genera la paura di aver paura, così si tende ad evitare le situazioni simili a dove è accaduto le prime volta. Prende atto un circolo vizioso dove è possibile autoconvincersi che è meglio isolarsi, vivere confinati, ed uscire sempre di meno diminuendo a volte anche le relazioni sociali. A questo punto, non è strano se di solito le persone, specialmente oggigiorno, fanno ricorso a psicofarmaci, credendo che basti a superare questo disagio. Ma perché “ci viene” l’attacco di panico? Paradossalmente per Perls, Hefferline e Goodman il panico viene considerato un sano e normale adattamento creativo che l’organismo attua in particolari condizioni.



Infatti:

“Il panico, come ogni esperienza, è un fenomeno del campo, espressione quindi di un particolare modo e momento del rapporto organismo/ambiente. È una funzione protettiva per l’organismo nelle situazioni di estremo pericolo ambientale.”

In effetti il panico è un sintomo (dal greco σύμπτωμα: circostanza) e il sintomo non va eliminato, ma è necessario renderlo meno rigido, comprenderlo, conoscerlo ed integrarlo. E’ importante capire cosa stiamo esprimendo, a cosa ci serve? A mio parere il panico serve probabilmente per mantenere lo “status quo”, per non affrontare se stessi, i propri bisogni/desideri di cambiamento e di realizzazione necessari al nostro benessere. Quando non si è in contatto con questi, si tende a predisporsi passivamente nei confronti della vita, si preferisce minimizzare e/o svalutare i messaggi che il nostro corpo ci invia (ripetuti mal di testa, nausee, mal di pancia, mal di schiena ecc.) fino a quando il corpo non inizia ad urlare attraverso l’attacco di panico o altri sintomi collaterali che assumono, in certi casi, punte estreme tali da non poter rimanere inascoltati. Diventa un braccio di ferro fra se stessi e purtroppo non si esce mai “vincitori”.