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martedì 31 marzo 2015

PSICOSOMATICA E CANCRO

Vi proponiamo il seguente articolo scritto dal Dott. Alfredo Ferrajoli.


PSICOSOMATICA E CANCRO: LA VISIONE ANALITICA REICHIANA E BIOENERGETICA E IL POSSIBILE RUOLO DELL’EDUCAZIONE COERCITIVA (Relazione presentata dal Dr. Alfredo Ferrajoli al Convegno Emozioni e Cancro. Articolo pubblicato sulla rivista specializzata “Medicina psicosomatica”)



Le attuali ricerche in ambito psicobiologico affermano l’esistenza di una relazione significativa tra eventi stressanti, caratteristiche di personalità e neoplasie. In particolare, affermazioni tratte da indagini retrospettive, tendenti ad investigare sulla storia anamnestica di persone affette da tali patologie, sono state confermate da ricerche longitudinali-prospettive, in cui un campione di persone sane è stato seguito nel corso degli anni allo scopo di valutare la differenze a livello di personalità e di life-events fra soggetti che avrebbero sviluppato neoplasie e soggetti che non avrebbero sviluppato questa patologia. 
Secondo tali ricerche, l’impiego di meccanismi psicologici di difesa del tipo rimozione-diniego (repression-denial) e la maggiore frequenza di eventi esistenziali stressanti sono associati ad un aumentato rischio di neoplasie.
Vari autori come ad esempio LeShan L., Bahnson C.B., Thomas C.B., hanno da tempo segnalato la presenza in questi pazienti di gravi disturbi nei primi rapporti oggettuali con le figure parentali e notevoli difficoltà nella creazione di schemi comunicativi validi sul piano affettivo ed emozionale. Essi sottolineano la presenza di un’ambiente familiare freddo e distaccato, basato su patterns relazionali che predispongono all’isolamento, al non coinvolgimento affettivo e al distanziamento emotivo fra i componenti familiari.
Anche autori di lingua tedesca affermano che i soggetti predisposti alla malattia neoplastica hanno sperimentato in età infantile carenze emozionali e affettive nel rapporto con i genitori, compensate solo parzialmente attraverso meccanismi basati sulla razionalizzazione e sulla repressione dei propri desideri .
In Italia, Pancheri P. riferisce, avendo presente il concetto di imprinting, come la presenza di schemi mentali legati a esperienze precoci possono essere fissati in tracce mnestiche emozionali riattivabili nel loro complesso in fasi successive dello sviluppo.
Reich W., già nel 1948, dopo lunghi studi sulla biopatia del cancro, aveva affermato l’esistenza di una relazione di questa malattia con le funzioni psichiche e chimico-fisiche dell’attività bio-emozionale dell’organismo all’inizio del suo sviluppo. Per questo egli aveva avvertito l’intera comunità umana dell’importanza fondamentale del rapporto madre/bambino fin dalle primissime fasi della vita embrionale – recentemente confermata da ricerche di psicologia prenatale – e, in generale, del ruolo svolto dall’educazione. Egli individuò nel movimento fisico la caratteristica naturale più importante presente nel bambino e intuì quanto esso fosse fondamentale per le funzioni bioenergetiche della vita.
E’ attraverso il movimento e la respirazione infatti, come ebbe modo successivamente di approfondire e sviluppare A. Lowen, che il bambino interiorizza, esteriorizza ed esprime la sua gioia di vivere.
Se avessimo la fortuna di incontrare bambini piccoli intenti a giocare con il liquido fondamentale della vita quale l’acqua rappresenta e fossimo sufficientemente aperti nei confronti della loro esperienza, potremmo renderci conto che queste attività naturali di gioco, rappresentano, per loro caratteristica, il protendersi e insieme l’espandersi nel piacere e nella gioia di vivere.
Gli ammalati di tumore, afferma A. Lowen dopo una vastissima esperienza psicoterapeutica, “ … da piccoli sono stati costretti a sottomettersi alle richieste dei genitori i quali violarono la loro integrità attraverso un reale o minacciato ritiro dell’amore …” .
Alexander Lowen è il referente più importante, egli infatti è il fondatore dell’Analisi Bioenergetica e dell’International Institute for Bioenergetic Analysis con sede in New York ed ha fornito il modello teorico-esperienziale al quale io faccio riferimento nel presente articolo.
Secondo questo modello analitico, la minaccia del ritiro dell’amore come avvertimento inferto dal genitore a un bambino piccolo può venire da questi percepita come minaccia alla sua stessa esistenza essendo essa dipendente dall’amore dei genitori. In questo modo, bambini piccoli possono sentire di non essere accettati per quello che sono e per ciò che sentono.
L’ambiente comunica, in vario modo infatti, che essi devono rivedere il loro essere se stessi e il loro rapporto con il mondo. Ripetuti tentativi di minaccia possono portare questi bambini a sentire dentro di loro l’urgenza impellente di dover conformarsi alle richieste dell’ambiente per sfuggire al sentimento di paura insito nella minaccia. Ecco allora che essi possono sentirsi costretti a negare a se stessi quei bisogni naturali di piccoli cuccioli di uomo che non sono ammessi dal potere dell’educazione genitoriale ed è in questo modo che essi possono perdere il contatto con i loro bisogni e, in definitiva, con quello di più naturale che è presente in loro.
Dalle lusinghe di un’educazione coercitiva questi bambini sono persuasi a cambiare l’immagine che essi vanno costruendo di sé con quella che i genitori vorrebbero che loro avessero.
Nella personalità, anche pre-morbosa, dei soggetti affetti da cancro, questa facciata esteriore esiste e consiste, secondo Alexander Lowen, nel “dover mantenere un atteggiamento ottimista, positivo”, nel “dover fare la cosa giusta”, nel negare, consapevolmente o no, il vero sentimento sottostante di disperazione che, come riferisce LeShan, “ … è l’elemento basilare nella vita emotiva del paziente malato di cancro … una nera, completa assenza di speranza circa la possibilità di raggiungere nella vita qualsiasi significato, interesse o vivacità. L’opinione di LeShan è che il malato è vissuto con questi sentimenti per tutta la vita, ma ha represso ogni emozione collegata ad essi. Non si arrabbia, né piange per la sua disperazione. Il suo atteggiamento basilare consiste nel cercare di ottenere amore e contatto facendo ciò che ci si aspetta da lui, con l’essere buono e utile”.
Questi pazienti tendono ad essere remissivi e a sottomettersi nei confronti delle situazioni della vita covando dentro di loro rabbia, impotenza, rassegnazione.
Reich a tal proposito afferma che la componente psicologica della “rassegnazione caratteriale”, come egli stesso la definisce, è collegata ad un collasso del sistema energetico e rappresenta “ … la prima fase di un lento processo involuto”, consapevole o meno, “risultante da un’alterazione nella scarica dell’energia …” (12) che rimanendo bloccata e ristagnando può dare origine al cancro.
Secondo la vastissima esperienza clinico-terapeutica di Alexander Lowen, molte persone affette da questa malattia possono essere portate a credere di “stare combattendo per la loro salute e per la vita, in realtà, ad un livello inconscio più profondo, esse si sono arrese .
“ … Molto tempo prima che subentri il danneggiamento biologico diretto”, afferma W. Reich, “sono però disturbate le funzioni fisiologiche e caratteriali: la capacità di contatto nel rapporto sociale, la gioia di vivere, di provare piacere, la capacità di lavorare, la pulsazione e l’emozione vegetativa” .
La rassegnazione caratteriale, presente anche in queste funzioni, secondo questo studioso, precederebbe quella sorta di indebolimento dell’apparato vivente al quale egli dà nome di “atrofia biopatica”, caratteristica sostanziale della canceropatia della quale “il tumore locale è soltanto uno dei sintomi e non la malattia medesima” .
Bahnson C.B. e Bahnson M.B. hanno elaborato un modello basato sull’ipotesi di una “complementarietà psicofisiologica” tra malattie psichiatriche e malattie somatiche. Il cancro, secondo questa impostazione, viene visto come un’alternativa alla psicosi: le difese psicologiche di tipo proiettivo predisporrebbero l’individuo ad una regressione sul piano comportamentale esponendolo a pericoli di malattie mentali più o meno gravi, mentre le difese psicologiche del tipo rimozione sarebbero maggiormente responsabili dell’insorgere di malattie a maggior impronta organica come l’isteria di conversione, le malattie psicosomatiche e il cancro.
Secondo A. Lowen, “il meccanismo di negazione rappresenta un freno per il sistema energetico di queste persone che lentamente indebolisce” .
Secondo LeShan, esisterebbe una stretta relazione fra caratteristiche di personalità, rappresentate in particolare da tratti depressivi, ridotta capacità di coinvolgimento emozionale, difficoltà nell’espressione di sentimenti ostili e lo sviluppo della malattia neoplastica .
Esisterebbe anche un rapporto diretto tra eventi stressanti, particolarmente la perdita di un’importante relazione affettiva, e lo sviluppo o la riattivazione di un processo neoplastico (15,16).
A tal proposito, Conti C. e Nervi C. riportano le ricerche di Stoll A.B. che testimoniano il caso di tre donne mastectomizzate da circa venti anni, decedute in seguito alla comparsa di metastasi a pochi mesi di distanza dalla morte dei rispettivi coniugi (17).
Eventi fortemente traumatici come questi sarebbero responsabili dello “sconvolgimento del progetto esistenziale dell’individuo destabilizzando meccanismi di difesa troppo rigidi o poco strutturati” (18).
Il trattenere, poi, dentro di sé il dolore, lo scarso contatto con i sentimenti di lutto e con il pulsare vivo delle emozioni esprime quell’atteggiamento di chiusura verso il mondo e verso la vita tipico del malato di cancro. Il carattere, anche pre-morboso, del canceroso difetta infatti di quell’aggressività che costituisce l’essenza della vita e che si manifesta attraverso il protendersi verso il mondo per ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni e l’autorealizzazione.
Questa caratteristica è relativa anche all’indebolimento dell’energia vitale che è presente nel processo biologico naturale dell’invecchiamento ma, mentre nell’età avanzata, come avverte Lowen, i bisogni e i desideri sono portati a diminuire d’intensità per la naturale diminuzione della forza vitale, nei pazienti giovani affetti da cancro si assiste alla presenza di bisogni e desideri molto forti mentre risulta debole l’aggressività necessaria per il loro soddisfacimento.
Secondo A.Lowen, il cancro è una contrazione del sé in quanto aumentate e costanti condizioni di frustrazione e mancate e ripetute realizzazioni del piacere indeboliscono l’impulso all’espansione e al protendersi impedendo, per questo, la piena espressione del sé.
Per invertire questo processo è necessario innalzare il livello di energia, intervenire sulla capacità di provare piacere e rafforzare il sé attraverso un’opera di intensa autoespressione.
La terapia bioenergetica essendo una terapia analitica aiuta inoltre l’individuo ad essere consapevole delle sue dinamiche psicologiche interiori allo scopo di gestire meglio conflitti irrisolti; in particolare il problema terapeutico nella relazione con questo tipo di pazienti sta nel ristabilire la loro progettualità esistenziale e nel far sviluppare in loro la capacità di provare piacere. Ma, come avverte ancora Lowen, “ … non è un compito facile, dato che questa non è solo una struttura di personalità affamata di piacere ma anche una struttura che non è più in grado di percepire tale fame; è ormai profondamente radicata la mancanza di speranza riguardo ad una vita che possa essere qualcosa di più di una lotta, che possa essere realmente godibile” (11).
Hughes J (19) e Davies (20), nelle loro ricerche hanno evidenziato come i soggetti a lunga sopravvivenza tendano ad esternare sentimenti aggressivi e ostili e quindi a fare uso di meccanismi di difesa del tipo proiezione.
Biondi M. e Grassi L. riportano le ricerche di Weisman e Worden che hanno sottolineato una maggiore sopravvivenza nei soggetti che si presentavano meno stressati emozionalmente e più reattivi nei confronti della malattia e che potevano contare sull’appoggio di persone con le quali avevano instaurato una stretta relazione confidenziale (21).
Fra gli studi prospettivi finora pubblicati anche lo studio di Shekelle R. e coll. è importante ai fini della nostra indagine (22).
Questa ricerca, effettuata mediante l’M.M.P.I. su una popolazione di base di 2107 soggetti normali, riporta i profili medi dei soggetti che hanno successivamente sviluppato una patologia tumorale dopo un periodo di osservazione della durata di diciassette anni.
Tale ricerca riferisce che il gruppo dei “candidati al tumore” differiscono statisticamente in maniera significativa a livello della scala “D” del test con valori superiori rispetto al gruppo che non aveva sviluppato la patologia tumorale.
Come affermano Mosticoni R. e Chiari G., la scala “D” dell’M.M.P.I. è associata a caratteristiche di personalità di tipo depressivo, con tendenze introversive, difficoltà a manifestare ed esprimere le emozioni, all’introiezione dell’aggressività (23).
Wilhelm Reich, come ho già detto, aveva riferito dell’esistenza, pre-morbosa, di questi tratti caratteriali presenti nei pazienti cancerosi che egli definì affetti fondamentalmente da “rassegnazione caratteriale” ed è per questo che considerò il cancro come una malattia generalizzata che coinvolge l’individuo nella sua totalità (10).
Anche per A.Lowen, il tumore non è altro che un sintomo del disagio che affligge tutto il corpo. Tale disagio consisterebbe in un processo di contrazione (afferente al momento della scarica dell’energia) e rappresenterebbe un crollo energetico dell’organismo diminuendo questi la forza nella capacità di assumere energia nell’espansione (afferente al momento psicobiologico della carica). Viene meno in questo modo l’impulso a protendersi verso il piacere e il contatto con la vita diventa progressivamente più debole.
Wilhelm Reich, nell’opera “Biopatia del cancro”, ci illustra una sorta di sintesi del processo vitale in cui si incontrano processi psicobiologici presenti in quello che egli definisce “quadriritmo”: gonfiamento-tensione > espansione-carica > contrazione-scarica > sgonfiamento-distensione. Egli ebbe modo anche di sottolineare l’importanza fondamentale svolta dalla respirazione: una respirazione esterna poco profonda apporta nei tessuti e nelle cellule poco ossigeno, affermò.
Citando un lavoro di un biologo dell’epoca, Otto Warburg, egli afferma che “ … i cancerostimoli più diversi hanno in comune un elemento: essi producono una locale carenza di ossigeno, da cui – nelle cellule colpite – deriva una perturbazione respiratoria. La cancerocellula ha quindi una cattiva respirazione con limitate proprietà ossidanti … Warburg vede nella mancanza di ossigeno – che conduce alla perturbazione respiratoria cellulare – una causa dello sviluppo del cancro …” (10).
In questo senso una respirazione esterna poco vitale disturberebbe gravemente la respirazione interna degli organi, cioè l’approvvigionamento di ossigeno e l’eliminazione dell’acido carbonico nei tessuti e predisporrebbe al cancro.
Affinché la respirazione possa fluire in modo libero e naturale è necessario operare un contatto con ciò che sentiamo dentro di noi.
Se reprimiamo i nostri sentimenti o non ci concediamo di viverli e sentirli, la nostra respirazione, necessariamente, diverrà contratta, superficiale.
La soluzione finale, comunque, al problema cancro, secondo W.Reich, sta nel prevenire la malattia a partire dal concepimento e dalla relazione precoce madre-bambino. Egli non vede, infatti, di buon occhio parte del nostro modo di educare i bambini poiché, considerando poco importanti i bisogni emotivi di questi, li predispone alla rassegnazione caratteriale e a corazzamenti muscolari di ogni tipo.
“ … L’educazione di tipo repressivo è responsabile dell’infelicità dell’epoca corrente e del conseguente ristagno dell’energia biologia dalla quale ha origine il cancro” (10).
L’educazione repressiva è anche responsabile di massicci sentimenti di rabbia che non essendo mobilizzati rimangono intrappolati nel corpo sotto forma di tensioni muscolari croniche.
Secondo A.Lowen ciò sarebbe presente anche nel paziente affetto da cancro e potrebbe essere dimostrato dalla presenza di sempre più frequenti lesioni metastatiche sviluppate a livello della colonna vertebrale. Questo studioso è orientato a credere che ciò possa essere dovuto a un crollo dell’impulso aggressivo, impulso che fluisce lungo le ossa della schiena.
E’ infine riconosciuto, da più parti, che variabili di tipo psicologico “ … sono in grado di ricoprire un ruolo non secondario non solamente ai fini del reinserimento, ma anche a fini diagnostici … recenti studi hanno mostrato come, in un approccio multidisciplinare alla malattia neoplastica, il trattamento psicologico e/o psicoterapeutico rappresenti un aspetto importante del programma terapeutico, sia per affrontare e gestire i numerosi stressors a cui il paziente è sottoposto durante l’intero arco della malattia, sia per il possibile ruolo che fattori di natura emozionale possono avere sul decorso e quindi sulla prognosi (17).
Nel contesto delle terapie oncologiche integrate, privilegianti approcci olistici, globali, al paziente, risulta essenziale, per quanto detto, il ruolo svolto dalla psicologia e dalla psicoterapia.
Il presente lavoro riferisce le recenti ricerche internazionali in psicobiologia dei tumori che affermano sempre di più l’esistenza di una relazione significativa tra eventi stressanti, caratteristiche di personalità – rappresentate in particolare da tratti depressivi, ridotta capacità di coinvolgimento emozionale, difficoltà nell’espressione di sentimenti ostili – e lo sviluppo della malattia neoplastica. In esso sono riportate le geniali intuizioni avute da Wilhelm Reich nei lontani anni ’40. Egli aveva affermato l’esistenza di una relazione di questa malattia con le funzioni psichiche e chimico-fisiche dell’attività bioemozionale dell’organismo all’inizio del suo sviluppo. Per questo egli avvertì l’intera comunità umana dell’importanza fondamentale del rapporto madre-bambino fin dalle primissime fasi della vita embrionale e, in generale, del ruolo svolto dall’educazione. Egli non vide di buon occhio parte del nostro modo di educare i bambini poiché, considerando poco importanti i bisogni emotivi di questi, li predisporrebbe alla rassegnazione caratteriale e a corazzamenti e tensioni muscolari di ogni tipo. L’educazione di tipo repressivo, egli affermò, è responsabile dell’infelicità dell’epoca corrente e del conseguente ristagno dell’energia biologica dalla quale ha origine il cancro. Più tardi un suo allievo, Alexander Lowen, individuò nel movimento fisico la caratteristica naturale più importante presente nel bambino e intuì quanto esso fosse fondamentale per le funzioni bioenergetiche della vita. Secondo questo studioso, il cancro è una contrazione del sé in quanto aumentate e costanti condizioni di frustrazione e mancate e ripetute realizzazioni del piacere indeboliscono l’impulso all’espansione e al protendersi e impediscono – per questo – la piena espressione del sé.

mercoledì 25 marzo 2015

Articolo a cura del Dottore Mario Smaldone.

Questo articolo è stato scritto dal Dottore Mario Smaldone ed è frutto dei suoi studi e della sua esperienza professionale. La tematica ci riguarda tutti da vicino ed è: Il Sogno





La vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere?

I sogni aiutano a vivere, ma chi di voi non ha mai sognato? Domanda banale ma forse nemmeno così tanto. Sono molte le persone che, anche per lunghi periodi della propria vita, non ricordano i propri sogni. Eppure sono lì, ci sono sempre, ogni notte, giorno dopo giorno. Ognuno di noi fa almeno quattro sogni per notte.
Nell'arco della storia, molte persone, civiltà, filosofie hanno cercato di spiegare i sogni. I Sumeri ad esempio parlavano del rituale dell'incubazione: questa pratica richiedeva che un individuo scendesse in un luogo sacro sotterraneo, dormisse una notte intera e andasse poi da un interprete a raccontare l'eventuale sogno, che di solito rivelava una profezia. Poi c’erano i Greci che nell'interpretazione trovavano la loro guida spirituale. Per arrivare poi alla cultura popolare, spesso semplicistica dove le stesse formule chiave sono applicate indifferentemente a individui completamente diversi. La famosa smorfia napoletana ad esempio è un elenco delle associazioni di immagini, situazioni, oggetti, avvenimenti con i numeri del gioco del lotto, un dizionario prêt-à-porter dei desideri di uscire dalla necessità con una vincita risolutiva.
Ma vediamo ora un aspetto più psicologico. Il sogno è la creazione più spontanea che l’essere umano è in grado di fare. Il mondo del sogno spesso è una realtà molto differente da quella che viviamo quotidianamente. E’ come entrare in un’altra dimensione, dove il tutto è possibile, dove il paradosso la fa da padrone, dove spazio e tempo si annullano. Riusciamo ad inventare, in maniera inconsapevole, delle storie incredibili, che spesso non si sono mai verificate nella nostra vita e che non hanno nessun legame con la realtà; possiamo a volte rappresentare un eroe, altre volte una vittima, altre volte ancora un sanguinoso carnefice. Qualsiasi parte interpretiamo nel sogno, dobbiamo sempre tener presente che siamo noi gli autori del sogno, noi scriviamo la trama. Infatti, esso è un’istantanea della nostra esistenza, dove rappresentiamo le parti di noi stessi, quelle parti che l’individuo non riesce ad accettare della propria personalità e le rinnega. Ed è proprio grazie a queste parti nascoste della personalità che il sognatore può raggiungere la sua interezza e totalità.
Stesso principio vale ovviamente per gli incubi. Paradossalmente sono utilissimi, dato che sono la più evidente traccia del tentativo di sfuggire da qualcosa. Perls li considera come dei messaggi di avvertimento che tendono a frustrare la persona per sollecitarla ad andare avanti, a superare l’impasse che ne impedisce la crescita.
Esiste un’interpretazione dei sogni? Secondo me no. Possono esistere dei simboli universali perché rimandano ad aspetti comuni di ogni uomo, ma molti altri simboli hanno in sé diversi significati a seconda dell’esperienza che ad essi sono connesse. Ad esempio l’acqua vista in un ruscello può dissetare, rinfrescare; se, invece, vediamo un mare agitato con onde altissime, le attribuiamo un significato di minaccia, terrore.

 Per approfondimenti il Dott. Smaldone suggerisce i seguenti testi:

La terapia gestaltica parola per parola di Fritz Perls
Teoria e pratica della Terapia della GestaltVitalità  e accrescimento nella personalità umana di Frederick S. Perls - Ralph Hefferline - Paul Goodman



lunedì 23 marzo 2015

Articolo scritto dalla Dott.ssa Raffaella Donnini

Vi proponiamo un articolo scritto dalla Dott.ssa Raffaella Donnini per la rivista Benessere4u






Troverete l' articolo cliccando sul seguente link:

http://www.benessere4u.it/mamme-lavoratrici-sindrome-affaticamento-da-stress/

La dipendenza affettiva





Tra le nuove forme di dipendenze sociali, ovvero quei fenomeni che hanno a che fare con comportamenti e usi legittimi e socialmente incentivati, che presentano il bisogno di essere reiterati con modalità ossessive e compulsive, riveste particolare interesse la dipendenza affettiva.
La dipendenza affettiva è una forma di dipendenza che si sviluppa all’interno delle dinamiche interattive ed affettive di una coppia.
La dipendenza affettiva è una componente caratteristica della nostra vita, poiché è attraverso ad essa che possiamo soddisfare i bisogni di approvazione, conferma, stima da parte degli altri, elementi che in ultimo incidono sulla propria autostima. Quindi la condizione di dipendenza dall’altro da sé è funzionale ai fini del perseguimento di un ottimale stato di benessere psicologico.
Essa comunque può assumere una forma patologica, quando il desiderio di fondersi con il patner - elemento che pur contraddistingue l’innamoramento - è esasperato e mantenuto nel tempo, sino a compromettere la vita e il benessere dei soggetti coinvolti. In una relazione sana questo desiderio fusionale tende progressivamente, con lo stabilizzarsi della relazione, ad affievolirsi.
La dipendenza affettiva è quindi definibile nei termini di condizione relazionale caratterizzata da un eccessivo bisogno di sentirsi dipendere dal patner e dalla mancanza di reciprocità nella relazione di coppia, tale per cui al suo interno è identificabile un patner - il dipendente per l’appunto- che è donatore d’amore a senso unico, condizione che crea malessere.

Nella “Love Addiction” la persona dipendente prova nei confronti del partner piacere e sensazione di euforia, come nel caso delle dipendenze da sostanze, anche per effetto degli effetti neurofisiologici determinati dagli ormoni coinvolti nell’innamoramento.
L’amare l’altro diviene una forma di sofferenza psicofisica poiché gran parte delle energie fisiche, mentali ed emotive sono investite nell’amare l’altro, al fine di ricevere amore e soprattutto approvazione, per effetto di una difficoltà nel riconoscere i propri bisogni accompagnata dalla tendenza a metterli in secondo piano rispetto i bisogni dell’altro.
Non ci si riesce a prendere cura di sé, a creare e mantenere spazi per la propria crescita personale e autodeterminazione, in quanto tutta l’attenzione e tutte le energie sono impiegate verso il partner.
Altra caratteristica della dipendenza affettiva è l’atteggiamento negativo e svalutante verso sé, come conseguenza del senso di inadeguatezza che contraddistingue le persone inclini a dipendendere dall’altro e l’eccessiva idealizzazione del patner. A questo si aggiunge anche un’estrema tolleranza nei confronti del partner e delle sue caratteristiche, anche negative e da continue richieste di assoluta devozione e di rinuncia da parte dell’amato.
La persona dipendente ha la tendenza a trascorrere sempre più tempo con l’altro, e a lasciare a questo sempre minori spazi personali. Questo è alimentato dall’incapacità di mantenere una “presenza interiorizzata” dello stesso, condizione che determina una progressiva perdita di contatti e relazioni con ciò che sta al di fuori della coppia. L’assenza della persona amata determina uno stato di apprensione e disperazione che viene meno solo ristabilendo il contatto con il partner.
Come ogni forma di dipendenza, anche quella affettiva è caratterizzata dall’incapacità dicontrollare il proprio comportamento, connessa alla perdita dell’Io e alla capacità critica relativa a sé stessi.

Le ricerche hanno evidenziato alcune caratteristiche personologiche che contraddistinguono le persone affettivamente dipendenti e che rinviano a dei bisogni emotivi che in tali circostanze sono come esasperati:
-       - il bisogno di sicurezza, che viene soddisfatto ricercando continue approvazioni e gratificazioni dal partner;
-       - la tendenza a disconoscere i propri bisogni, come conseguenza di un’infanzia in cui la persona è stata abituata a limitare le proprie aspettative, in conseguenza a delle esperienze relazionali precoci di trascuratezza, inappaganti e frustranti, e dunque di figure genitoriali incapaci di rispondere adeguatamente ai bisogni affettivi del bambino e di esperienze di “vuoto affettivo” vissute in modo traumatico. Spesso, sempre al fine di negare e disconoscere i propri bisogni e stati interni, la scelta è orientata verso partner "problematici", portatori a loro volta di altri tipi di dipendenza (droghe, alcol, gioco d'azzardo, ecc.).
Si tratta quindi di una condizione basata su vissuti di un rifiuto precoce legato alla propria inadeguatezza che si ripresenta nella relazione di coppia, per effetto dei modelli relazionali appresi.

Ma quali sono i segni della dipendenza affettiva? Questi possono essere così riassunti:
  •        -terrore dell’abbandono e della separazione
  •         evidente mancanza di interesse per sé e per la propria vita
  •        paura di perdere la persona amata
  •         devozione estrema
  •         gelosia morbosa
  •         isolamento
  •         incapacità di tollerare la solitudine
  •         stato di allarme e di panico davanti alla minima contrarietà
  •         assenza totale di confini con il partner: la relazione è simbiosi e fusione
  •         paura di essere se stessi
  •         senso di colpa e rabbia.


In letteratura sono comunque identificabili varie tipologie di Love Addiction, corrispondenti ad altrettanti profili di dipendenti affettivi:
  •   Dipendente Affettivo Ossessivo, caratterizzato da una marcata tendenza all’ossessività nei confronti del partner idealizzato, tale per cui non riesce a”farne a meno” anche se indisponibile, a livello sia emotivo che sessuale, non amorevole, distante, abusivo, egoista.
  •  Dipendente Affettivo Codipendente, spesso caratterizzato da scarsa autostima e insicurezza che lo porta a rimanere attaccato al partner, manifestando un comportamento codipendente.È una persona permissiva, che si prende cura del partner in modo totalizzante, tendente a esercitare un controllo passivo – aggressivo verso l’altro.
  • Dipendente dalla Relazione, che in genere non è più innamorato del partner ma al contempo è incapace di lasciarlo andare e di rinunciare alla relazione, per paura del cambiamento e soprattutto per paura di restare solo.
  • Dipendente Affettivo Narcisista, altamente egocentrico, ma con bassa autostima - tratto tipico del narcisismo - pur comunque mascherata dalla grandiosità.Appare distaccato ed indifferente, piuttosto che ossessivo. L’abbandono del patner è comunque vissuto in modo disperato, con la tendenza a protrarre la relazione, anche mediante l’uso di violenza.


La dipendenza affettiva è un fenomeno problematico, e per tale motivo si ritiene essere necessario seguire un percorso psicoterapeutico, sia individuale che di coppia, al fine di ristabilire l’equilibrio sia individuale che relazionale. Il percorso è finalizzato a permettere alla persona dipendente capire e definire chiaramente i propri bisogni, consentendogli di “vedere” e comprendere le proprie risorse cui potere attingere per ristabilire una condizione di benessere psicologico.
Il percorso sarà strutturato in modo da consentire alla persona dipendente di riappropriarsi della propria vita in funzione non sono dell’altro ma anche e soprattutto in funzione di sé; riacquisire spazi personali; scoprire, affinare, acquisire risorse personali che permettano l’autodeterminazione.








Guerreschi C.(2005). New addictions. Le nuove dipendenze. Edizioni San Paolo, Milano.
Miller D. (1994). Donne che si fanno male. Feltrinelli, Milano.
Norwood R. (1985). Donne che amano troppo. Feltrinelli, Milano
http://www.stateofmind.it/2013/12/manipolazione-dipendenza-affettiva/
http://www.benessere.com/psicologia/arg00/dipendenza_affettiva.htm
http://www.riza.it/psicologia/tu/3849/come-superare-la-dipendenza-affettiva.html
http://www.psiconauti.it/Dipendenze_Affettive.aspx

http://www.iltuopsicologo.it/dipendenze%20affettive.asp

venerdì 20 marzo 2015

Articolo a cura della Dott.ssa Raffaella Donnini

Vi proponiamo un altro articolo scritto dalla Dott.ssa Raffaella Donnini per la rivista Benessere4u





Troverete l' articolo cliccando su questo link: 

giovedì 19 marzo 2015

Ansia, disturbo d'ansia e attacchi di panico....

ANSIA, DISTURBO D'ANSIA E ATTACCHI DI PANICO.
COSA SONO E COME PUOI INTERVENIRE


L' ANSIA è una condizione emotiva molto diffusa sia nei bambini che negli adolescenti e adulti. Si tratta di un'esperienza che nella maggior parte dei casi ha carattere transitorio. La semplice presenza di uno stato di apprensione o di timore non è certo un segno di psicopatologia. È solo quando la frequenza, l'intensità e la durata di tale condizione diventano eccessive che lo stato d'ansia viene considerato patologico.
IL DISTURBO D'ANSIA può essere un disagio psicologico a se stante oppure un sintomo di altri disturbi psicologici ( es. Disturbo depressivo ). Può manifestarsi a livello emotivo come attesa con apprensione, preoccupazione, insicurezza, anticipazione di eventi negativi e a livello somatico con aumento del ritmo cardiaco, sudorazione, spasmi muscolari, pallore, tremore e nei casi estremi con reazioni di fuga, immobilizzazione e sensazione di soffocamento.
GLI ATTACCHI DI PANICO sono manifestazioni improvvise che raggiungono il loro picco in pochi minuti. Si ha un attacco di panico quando sono presenti almeno quattro dei seguenti sintomi : palpitazioni; cardiopalma o tachicardia; sudorazione e tremori fino alla sensazione di soffocamento; sensazione di dolore al petto; nausea o disturbi addominali; senso di sbandamento; instabilità, svenimento o derealizzazione ( sensazione di irrealtà ) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi ); paura di morire o perdere il controllo.
Per quanto riguarda l'ansia e il disturbo d'ansia, uno dei punti fondamentali per"gestire e superare" tali condizioni è cercare di comprendere dove hanno preso posto nella propria mente e perché all'improvviso sono comparsi nella nostra vita quotidiana.
È opportuno sottolineare che il disturbo d'ansia prevede la terapia farmacologica che mira alla risoluzione dei sintomi, ma che nulla può fare con le cause che hanno determinato l'insorgenza del disturbo per cui è consigliato seguire un percorso psicoterapico.Circa il disturbo di panico, gli studi empirici finora realizzati, delineano le cause in:
• situazioni stressanti fisiche (es. malattie, mancanza di sonno, iperlavoro, uso di sostanze stupefacenti) e psicologiche (es. stress lavorativo, problemi finanziari, cambi di ruolo, conflitti interpersonali, malattie di familiari, lutti);
• iperventilazione, che consiste in una respirazione più rapida e profonda rispetto al fabbisogno d’ossigeno dell’organismo in un determinato momento;
• predisposizione genetica e familiarità, per cui i consanguinei di primo grado si
trasmetterebbero la tendenza a rispondere con l’ansia a determinati stimoli;
• caratteristiche di personalità, consistenti essenzialmente in una sensibilità agli
stimoli ansiogeni, che si manifesta in particolare con lo stile di pensiero catastrofico.
Come attestato da diversi studi empirici, attualmente la psicoterapia più efficace per il disturbo di panico è quella cognitivo-comportamentale, applicata individualmente o in gruppo.
La terapia cognitivo-comportamentale per il disturbo di panico si basa sul presupposto che, durante un attacco di panico, la persona tende ad interpretare alcuni stimoli esterni (es. code nel traffico, luoghi chiusi, luoghi aperti) o interni (es. tachicardia, sensazione di svenimento, confusione mentale) come pericolosi, come il segnale di un’imminente catastrofe; tali interpretazioni, spaventando la persona, scatenano l’ansia, con i relativi sintomi mentali e fisici. Può capitare, ad esempio, di interpretare l’accelerazione del proprio battito cardiaco, dovuta ad uno sforzo fisico, come segnale di un pericolo e questo provoca ansia. Se i sintomi dell’ansia vengono poi, a loro volta, interpretati in modo catastrofico, ossia se si prospettano conseguenze disastrose, il livello d’ansia cresce ulteriormente, intrappolando il soggetto in un circolo vizioso che
culmina in un attacco di panico.
Il trattamento cognitivo-comportamentale prevede un protocollo che contiene le
seguenti procedure:
• ricostruzione della manifestazione iniziale e attuale del disturbo;
• formulazione di un contratto terapeutico, che contenga, in particolare, obiettivi
condivisi da paziente e terapeuta e i loro rispettivi compiti (es. compiti a casa
per il paziente);
• psicoeducazione, che consiste nel fornire al paziente informazioni sul disturbo,
in particolare le sue modalità di insorgenza e mantenimento (mediante la ricostruzione del circolo vizioso del panico);
• insegnamento di tecniche per la gestione dei sintomi dell’ansia;
• individuazione delle interpretazioni erronee (es. pensieri catastrofici) che portano all'attacco di panico e messa in discussione di tali interpretazioni;
• esposizione graduale alle sensazioni e agli stimoli temuti ed evitati; prevenzione
delle ricadute.
Questo protocollo è applicabile sia alla terapia individuale, che a quella di gruppo. La terapia di gruppo consente ad ogni partecipante di confrontarsi con altre persone, che soffrono del suo stesso disturbo, favorendo il ridimensionamento del problema e la riduzione della sensazione soggettiva di “essere anormale”.
Vi sono, però ulteriori approcci terapici altrettanto validi, tra i quali:
• terapia sistemica che si basa sulla considerazione che i disturbi d'ansia spesso
accompagnano ed insorgono in particolari momenti del ciclo vitale, quali: svincolo dalla famiglia d'origine, nascita dei figli, uscita dei figli dalla famiglia,
cambiamenti ormonali ecc. Prende in considerazione le varie fasi connettendole
alle aspettative dell'individuo; inoltre verifica se il sintomo espresso dal singolo
sia in realtà espressione di un disagio della famiglia in generale.
• Terapia della Gestalt che si concentra sulle emozioni collegate allo stato d'ansia nel qui e ora e connette tali emozioni con eventi passati.









Riferimenti bibliografici:
A.Gragnani. F. Mancini. Il disturbo di panico e l'agorafobia. Fioriti editore
P. Chianura. L. Chianura. E. Fuxa. S. Mazzone. Manuale clinico di terapia familiare. Vol 1. Processi relazionali e psicopatologia. Franco Angeli edizioni
Kring. Davison. Neale. Johnson. Psicologia clinica. Zanichelli
S.Rachman. L'ansia. Laterza editore
A.Wells. Trattamento cognitivo dei disturbi d'ansia. Mcgraw Hill

Articolo a cura delle Dott.ssa Raffaella Donnini realizzato per la rivista Benessere4u

Vi proponiamo un interessante articolo scritto dalla Dott.ssa Raffaella Donnini , Psicologa facente parte del nostro Staff, pubblicato su Benessere4u che potete trovare cliccando sul seguente link http://www.benessere4u.it/essere-soli-e-sentirsi-soli-le-due-facce-della-solitudine/

martedì 17 marzo 2015

Abuso infantile: classificazione e linee di intervento

tratto dall' esperienza come volontaria presso il Telefono Azzurro O.n.l.u.s.

Eleonora Inglima- psicologa e psicoterapeuta
 







Il termine abuso si configura come qualsiasi comportamento, volontario o involontario, da parte di adulti, che danneggi in modo grave lo sviluppo psico-fisico de bambino. L’abuso, quale che sia la sua connotazione, costituisce sempre un attacco confusivo e destabilizzante alla personalità in formazione del bambino e perciò provoca gravi conseguenze a breve, medio e lungo termine sul processo di crescita.


Le principali tipologie di abuso sono:


1)      Abuso fisico: è la forma più manifesta e facilmente riconoscibile; si verifica quando i genitori o le persone che si prendono cura del bambino mettono in atto comportamenti violenti causando danni fisici, non accidentali né determinati da patologie organiche


2)      Abuso psicologico: è la forma più difficile da individuare, è il tipo di maltrattamento più sottile e dannoso per il bambino. Consiste in quei comportamenti attivi o omissivi, che gravano psicologicamente sul minore, agiti individualmente o collettivamente, da persone che, per diverse caratteristiche, sono in posizione di potere rispetto a bambino.


3)      Abuso per patologie delle cure: si riferisce all’ inadeguatezza o all’insufficienza di cure rispetto ai bisogni fisici, psicologici, medici ed educativi della fase evolutiva del bambino, da parte di coloro che ne sono i legali responsabili. L’abuso per patologie della cura sono:


a.       Incuria: fornire cure fisiche, emotive ed affettive insufficienti rispetto all’età e ai bisogni evolutivi de bambino

b.      Discuria: fornire cure distorte e inadeguate rispetto all’età del bambino

c.       Ipercuria: cura eccessiva per lo stato fisico del bambino, caratterizzata da una inadeguata e dannosa medicalizzazione

4)      Abuso sessuale: si parla di abuso sessuale nei casi in cui un bambino viene coinvolto in attività sessuali che non è in grado di comprendere per ragioni di immaturità psico-affettiva, per le quali non è pronto e delle quali non può avere piena consapevolezza. L’ abuso sessuale può essere suddiviso in differenti categorie:

a)      Intrafamiliare: viene agito dai membri della famiglia del bambino. Questo costituisce la forma più grave di abuso sia per gli effetti psicologici immediati sia per quelli a lungo termine, in quanto confonde i ruoli familiari e generazionali incidendo notevolmente sullo sviluppo psicologico della vittima

b)      Extrafamiliare: compiuto da adulti sconosciuti al bambini o da adulti che fanno parte del suo mondo sociale e che il bambino può incontrare occasionalmente

c)      Istituzionale: quando gli autori sono coloro ai quali il bambino è affidato per ragioni di cura, custodia, educazione, all’interno di istituzioni ed organizzazioni (maestri, bidelli, istruttori di palestra, sacerdoti)

d)      Di strada o da parte di gruppi organizzati: sconosciuti, sette, gruppi di pedofili

e)      Ai fini di lucro: pedopornografia, sfruttamento della prostituzione minorile, ecc

La psicopatologia dello sviluppo ci consente una rielaborazione e comprensione degli aspetti dello sviluppo connessi  all’abuso e al maltrattamento. Tale prospettiva ci consente di fare una diagnosi differenziale del danno in base ad alcuni fattori ( fase evolutiva, differenze di genere, tipo di maltrattamento) e ad alcune variabili relative all’individuo, ala sua famiglia e al contesto sociale.

Possiamo distinguere due categorie di fattori: fattori di rischio o potenzianti, che aumentano le probabilità di maltrattamento e fattori protettivi o di compensazione, che al contrario diminuiscono il rischio. Viene introdotta inoltra una variabile temporale per ognuna delle due categorie, che distingue i fattori transitori, che indicano una situazione temporanea, e fattori duraturi che indicano una condizione permanente.

I fattori di rischio vengono raggruppati tre categorie :
-          Caratteristiche familiari: maltrattamento della moglie, isolamento sociale, assenza di supporto familiare

-          Caratteristiche di ciascuno genitore: disturbi psichiatrici(depressione, schizofrenia), alcolismo, cattiva percezione del bambino

-          Caratteristiche dell’interazione di ciascun genitore con il bambino: attaccamento disorganizzato –insicuro, uso di punizioni corporali, aumento significativo delle reazioni di irritazione di fronte al pianto

I fattori protettivi comprendono invece le relazioni positive dei genitori con le rispettive famiglie di origine, una buona qualità del rapporto di coppia, un attaccamento sicuro. Sono di rilevanza sostanziale anche a capacità da parte della famiglia di fronteggiare situazioni di stress e di difficoltà e di utilizzare livelli adeguati di comunicazione efficace all’interno della famiglia.

Le conseguenze che generalmente si manifestano nell'adulto abusato riguardano la sfera emotiva, la sfera sessuale, difficoltà legate alla socializzazione e alle relazioni di coppia, disturbi fisici

Comprendere  quali sono i comportamenti disturbati messi in atto come conseguenza dell’abuso,  può aiutare la persona a fronteggiarli e a modificarli. Per far ciò è necessaria una elaborazione dell’evento traumatico e dei vissuti ad esso connesso, in primis acquisendo la consapevolezza che ciò che è accaduto  non è dipeso dal proprio modo di essere, ma da un evento esterno traumatico.

E’ opportuno, in questo senso, un percorso psicoterapico che aiuti a sbloccare il trauma ea ridefinire  le erronee credenze ad esso collegate.

Cosa fare di fronte ad una situazioni di abuso?

 In caso in cui si venga a conoscenza di un abuso a danno di un minore, l’ adulto è possibile far riferimento a:

-          Forze dell’Ordine (Polizia o Carabinieri), Procure presso il Tribunale Ordinario e presso il Tribunale per i Minorenni

-          Servizi Sociali Comunali, Consultori ASL

-          Pronto Soccorso e Punti di Primo Intervento pediatrici (PPI)

Cosa NON fare nei casi di sospetto maltrattamento o abuso

- Non si informa direttamente la famiglia del minore quando vi sono gravi elementi di pregiudizio (segni fisici o rivelazioni di abuso e maltrattamento);

- Non si informa la persona indicata dal minore quale presunto autore del maltrattamento o abuso e non gli si chiedono chiarimenti,

- Non si indaga sulla veridicità dei fatti e non si pongono domande al minore o alla persona indicata dal minore né ad altri minori-compagni di scuola su tali fatti.

                                      
                                                              

Per approfondimenti bibliografici:
- LINEE GUIDA IN TEMA DI ABUSO SUI MINORI. Revisione approvata in CD SINPIA il 15 febbraio 2007 

- Caffo E. 2003, Consulenza telefonica e relazione d'aiuto. La qualità dell'ascolto e dell'intervento telefonico con i bambini e gli adolescenti. Telefono Azzurro e McGraw-Hill 

Dedicato a chi lotta per realizzare un sogno.


domenica 15 marzo 2015

La ludopatia.


 
 
La ludopatia è un disturbo assimilabile alle dipendenze le cui conseguenze portano all’incapacità di resistere all’impulso di giocare d’azzardo.  L’idea del controllo e di onnipotenza portano il giocatore all’illusoria certezza di potersi rifare delle somme perse, lo portano in breve a gravi difficoltà nello studio, nel lavoro, nella vita sociale in genere. I rituali, le scaramanzie aggiungono un ulteriore possibilismo all’idea di poter controllare l’azzardo.

Quali sono le cause che portano un individuo a diventare un giocatore d’azzardo ?

Una persona che vive un momento di disagio o di difficoltà economiche può desiderare di ottenere un riscatto nei confronti delle avversità e sperare di poter “guadagnare” delle somme di denaro che consentiranno di riequilibrare la propria posizione. L’individuo con il gioco otterrebbe in questo modo un duplice risultato, fuggire da una realtà non appagante ed avvicinarsi ad una realtà che potrebbe dargli la possibilità di recuperare la propria posizione sociale e personale. 

Ci sono poi le persone che desiderano vivere l’eccitazione o la suspance del gioco. L’emozione di mettere in gioco il proprio denaro consente di provare quel piacere che l’apatia della quotidianità non permette di sentire. Quindi in entrambe queste situazioni il soggetto si crea attraverso il gioco una realtà psicosensoriale diversa ed appagante.

Infine una causa può essere il coinvolgimento di coloro che, fin da bambini, sono abituati a vedere i propri familiari impegnati nel gioco. Questo porta ad un’abitudine e appunto ad una familiarità con il gioco che rischia di giungere alla ludopatia.

I giochi d’azzardo possono avere svariate caratteristiche che li distinguono, tali differenze sono studiate al fine di condizionare e di andare a colpire la maggior parte delle tipologie di consumatori.

Per iniziare i giochi d’azzardo sono molto accessibili, le slot machine, i gratta e vinci, il lotto, si trovano in tantissimi esercizi commerciali quali bar, tabaccherie, sale slot ecc. Per cui la facile reperibilità è importante per consentire a chiunque di accedere al gioco che più si confà alle sue esigenze di scommettitore.

Un ulteriore aspetto riguardante la facilità del gioco è il fatto che il giocatore può anche iniziare con piccole somme di denaro. Di solito gli importi modesti preoccupano poco e consentono allo scommettitore di sperare di ottenere molto.

La maggiore o minore attesa del giocatore d’azzardo nel conoscere i risultati influisce sulla giocata successiva, più è breve e più il giocatore ha la possibilità di riprovare; inoltre la rapidità nella riscossione della vincita condiziona verso una modalità di gioco continuativo perché le somme “guadagnate” possono essere riutilizzate immediatamente. 

Un’altra caratteristica dei giochi d’azzardo sono le piccole vincite che vengono effettuate, l’idea di essersi avvicinati anche di poco ad una vincita più grossa condiziona il giocatore a riprovare.

In riferimento alle slot machines ad esempio i suoni piacevoli, le immagini colorate, rilassano il giocatore, lo fanno stare a proprio agio nel luogo in cui si trovano. Si vocifera che spesso nei locali dove si gioca, specie nelle strutture quali casinò venga inserito nell’aria condizionata una quantità di ossigeno per non far sentire i giocatori stanchi e renderli maggiormente rilassati.

Sono 790mila gli italiani a rischio ludopatia. Si tratta di giocatori "problematici" che rischiano di diventare dipendenti dal gioco d'azzardo.  Tale numero è destinato a crescere in tempi rapidissimi.
Quando si inizia ad essere scommettitori"problematici" il rischio è che qualsiasi gioco vada bene; non si discrimina tra un gioco e un altro, la cosa importante è giocare. Diventa una vera e propria dipendenza ossessiva con sbalzi d’umore, oscillazioni tra euforia e depressione, oltre alle gravi conseguenze economiche viene colpito l’ambito affettivo.

Riferimenti bibliografici:
G. Lavanco,M. Croce. Psicologia delle dipendenze sociali - mondo interno e comunità. McGraw-Hill