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lunedì 27 aprile 2015

Bullismo: conoscerlo per combatterlo!

Sempre più frequentemente leggiamo notizie che vedono protagonisti ragazzi e ragazze vittime di violenza fisica o psicologica da parte di loro coetanei. Le statistiche sono in costante aumento. Una recente indagine condotta dal portale “Skuola.net”, riferimento per migliaia di studenti italiani, in collaborazione con la Polizia Postale, ha messo in luce come ben 1 ragazzo su 3 sia vittima di azioni di bullismo da parte di coetanei; i numeri sono poi in aumento al decrescere dell’età della vittima.
Il Bullismo comprende azioni di sistematica prevaricazione e sopruso, di comportamenti violenti, sia di natura fisica che psicologica, agite tra coetanei, un bullo (o aggressore) e una vittima. Un ragazzo è quindi vittima di bullismo quando “è ripetutamente esposto ad azioni offensive che compromettono il suo stato di benessere psico-fisico” (Olweus).
È un fenomeno abbastanza complesso e variegato, anche se dalla letteratura e dagli studi è possibile rintracciare alcune caratteristiche costanti di tali azioni:


  • è un comportamento intenzionale, tale per cui le molestie e le violenze sono agite con l’intento di provocare danno alla vittima;
  • i protagonisti sono bambini o ragazzi in età scolare;
  • è reiterato nel tempo;
  • presuppone un’asimmetria o un dislivello tra protagonisti, uno squilibrio di potere tra chi compie l’azione e chi la subisce. Tale dislivello inoltre crea difficoltà alla vittima anche rispetto la possibilità di difendersi e reagire ai sopprusi cui è vittima, spesso per paura di ritorsioni o a causa del senso di vergogna.




Le tipologie di bullismo

Esistono varie tipologie di bullismo, che possono essere distinte in bullismo diretto, che presuppone una relazione diretta tra vittima e bullo e in bullismo indiretto, caratterizzato invece dall’assenza di rapporto diretto tra i protagonisti, tale per cui l’intento delle azioni di violenza è spesso quello di ostracizzare ed emarginare la vittima dal gruppo dei pari.
Come già accennato, il bullismo è un fenomeno che può assumere varie forme. Può caratterizzarsi da: 

  •  violenze fisiche (calci, spintoni, sputi, aggressioni fisiche),
  • violenze verbali (offese, minacce, maldicenze, prese in giro, ingiurie),
  • violenze psicologiche (emarginazione, ostracismo),
  • cyberbullismo (invio di messaggi molesti, 
  • materiale indesiderato tramite dispositivi tecnologici come il cellulare o il pc).



La scuola sembra essere il contesto entro il quale sono più frequenti gli episodi di bullismo. Le statistiche evidenziano infatti che nel 57% dei casi le violenze avvengono all’interno degli istituti scolastici (27% in aula, il 14% nei corridoi e il 16% nel cortile). Il restante 43% delle violenze avvengono invece in altri contesti di aggregazione per i giovani.
Questo fa riflettere su come le azioni di contrasto al fenomeno del bullismo dovrebbero interessare in particolare la scuola, agenzia di socializzazione primaria per i ragazzi, ma anche contesto entro il quale possono verificarsi episodi che creano malessere.

I protagonisti del bullismo

Le vittime sono, in genere, ragazzi ansiosi ed insicuri, psicologicamente più vulnerabili, e per questo percepiti come più deboli dai coetanei. Talvolta soffrono anche di scarsa autostima, con difficoltà di autoaffermazione e di fronteggiamento delle situazioni problematiche. Sono caratterizzate da un modello reattivo ansioso o sottomesso, rinforzato negativamente dalle azioni di violenza cui si è vittima. Sono altresì inclini al senso di colpa e al senso di vergogna, fattori che alimentano il circolo vizioso della violenza.

I bulli sono invece ragazzi particolarmente aggressivi, ostili ed impulsivi. Tali atteggiamenti sono rivolti in particolare ai coetanei percepiti come più deboli.
Presentano un bisogno di dominare gli altri, si percepiscono in una posizione di superiorità, vera o presunta, e presentano una bassa tolleranza alla frustrazione. Sono caratterizzati da un modello reattivo-aggressivo, talvolta anche oppositivo.
Non sempre il bullo è colui che agisce la violenza. Specie in episodi di violenza e prevaricazione tra coetanei che si verificano in contesti di gruppo, è possibile identificare il cosiddetto bullo passivo, ovvero il seguace del bullo che agisce violenza, ma che partecipa in modo indiretto alla stessa.

Occorre comunque precisare che le cause di questo fenomeno sono da ricercarsi non solamente nei tratti personologici dei protagonisti coinvolti, ma anche correlati sociali, riconducibili in particolare a contesti familiari di provenienza. Spesso, dietro il comportamento di prevaricazione e di violenza, sussistono condizioni familiari non serene e disfunzionali.  Tali atteggiamenti possono essere letti anche come espressione di un disagio sociale o come richiesta di aiuto e di ricerca di attenzione, derivato da una inadeguato processo di socializzazione familiare. Gli studi sull'ambiente familiare del bullo evidenziano la predominanza di condizioni di lassismo educativo o, al contrario, di eccessivo autoritarismo.



Le conseguenze del bullismo

La rilevanza che il fenomeno del bullismo assume riguarda non solo i numeri cui le statistiche e gli studi costantemente ci presentano, in continuo aumento; ma soprattutto per l’incidenza che tali episodi possono avere sul benessere psico-fisico dei ragazzi che ne sono vittima.
Nelle vittime sono infatti frequenti disturbi psicosomatici (mal di testa, disturbi gastroenterici, enuresi, disturbi del sonno, disturbi dell’alimentazione) e psicosomatici (ansia, depressione, suidicio).



A tale proposito risultano fondamentali le azioni di prevenzione e i piani di intervento anti-bullismo, che andrebbero realizzate in sinergia tra la famiglie e scuole, tra genitori e insegnanti.
È importate creare nel contesto familiare e scolastico un clima positivo, accogliente e non rifiutante, rispondente alle esigenze del ragazzo e caratterizzato dalla partecipazione attiva e propositiva di ragazzi e adulti. Occorre creare un contesto in cui i ragazzi possano sentirsi liberi di rendere manifesto il proprio malessere, nell’intento di contrastare fenomeni come il bullismo, che generano ulteriore condizione di sofferenza.
Per i ragazzi vittime di bullismo uno dei più importanti suggerimenti è di parlare con i genitori e con gli insegnanti, non nascondersi dietro al senso di vergogna o alla paura di avere ritorsioni. Occorre non isolarsi e cercare aiuto da chi può offrire sostegno!



Olweus, D. (2001). Bullismo a scuola. ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono. Firenze: Giunti Editore.

domenica 19 aprile 2015

I gruppi di auto mutuo aiuto

“Tu solo ce la puoi fare, ma non ce la puoi fare da solo”






Funzionale al raggiungimento di una condizione di benessere è per lì individuo la possibilità di avere attorno a sé una rete sociale e di relazioni significative che possano supportarlo nei momenti di difficoltà.
Per questo, sta ormai divenendo una prassi consolidata e in costante crescita la partecipazione a gruppi di auto mutuo aiuto. Si tratta di una forma di relazione d’aiuto che fa leva sulla possibilità di ricevere e, allo stesso tempo, offrire sostegno all’interno di un contesto gruppale.
 L’auto mutuo aiuto è definibile come  “l’insieme delle misure adottate da non professionisti per promuovere, mantenere o recuperare la salute, quest’ultima intesa secondo l’accezione dell’Organizzazione Mondiale della Salute, come lo stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale di una determinata comunità”. È uno degli strumenti di maggior interesse nell’ambito delle relazioni d’aiuto che permette di ridare ai cittadini responsabilità e protagonismo, e “rendere a misura di individuo” l’assistenza socio-sanitaria, per migliorare il benessere della comunità.

Il gruppo di auto mutuo aiuto non è una metodologia attraverso la quale i partecipanti si limitano a consolarsi a vicenda. Piuttosto si propone come aggregazione spontanea, su base volontaristica, fondata sui principi dell’ascolto e del reciproco sostegno. In tale contesto, ai partecipanti è data la  possibilità di condividere i propri vissuti, confrontarsi, scambiarsi informazioni, affrontare le proprie insicurezze ed esercitare le proprie risorse. 


Sono quindi piccoli gruppi la cui forza risiede negli sforzi, nelle capacità, nelle motivazioni e anche nelle competenze dei membri che ne fanno parte.
Il contesto gruppale da la possibilità ai membri di non sentirsi delle “isole” nella gestione del proprio problema, facendo venire meno l’isolamento, la solitudine, la sensazione di essere soli a dover affrontare lo stesso.
L’auto mutuo aiuto si basa su:
-l’idea della mutualità, dello scambio reciproco di aiuto, dell’impegnarsi per se stessi e per l’altro, in una condizione di sostegno reciproco;
-l’idea dell’empowerment individuale e sociale, processo attraverso il quale gli individui diventano attivi protagonisti della propria vita, esercitando su di essa il giusto controllo, attraverso l’incremento dell’autoefficacia e l’assunzione di senso di responsabilità, nella direzione della promozione del cambiamento.
Occorre comunque evidenziale che l’utilizzo di tale metodologia non debba essere intesa in sostituzione delle tradizionali modalità di gestione dei problemi psicologici. Piuttosto andrebbe considerata quale strumento di supporto da affiancare ad un percorso psicoterapeutico, nell’intento di creare reti informali di sostegno, ugualmente importanti nella promozione del benessere della persona.

Negli ultimi decenni, lo sviluppo delle tecnologie e la diffusione di internet e delle comunità virtuali, ha ampliato le prospettive della metodologia dei gruppi di auto mutuo aiuto.
Sono molteplici le comunità presenti sul web, come chat e forum, nate nell’intento di offrire uno spazio entro il quale gli utenti possono condividere le proprie esperienze e problematiche, facendo leva sulla possibilità di confrontarsi con gli altri, supportandosi a vicenda.
La comunicazione online, seppure caratterizzata da diversi tempi e spazi, da un differente modo di relazionarsi e comunicare con l’altro (per la mancanza del contatto visivo, e di tutti quegli aspetti inerenti alla comunicazione paraverbale e non verbale), sembra trovare particolare rilievo perché permette di superare le barriere che nell’interazione vis a vis possono costituire un ostacolo non indifferente per la persona che ricerca aiuto.





Il mondo virtuale, utilizzato entro opportuni limiti, rappresenterebbe, secondo la letteratura scientifica, uno spazio transizionale che si configura come un’estensione del mondo intrapsichico della persona. Può anche configurarsi quale area intermedia tra sé e l’altro, che è in parte sé e in parte altro.
Nel web è possibile instaurare relazioni che, pur non condividendo uno stesso spazio o tempo, pur non vivendo un contatto con la persona che sta al di là dello schermo, grazie alla condizione di anonimato, permettono di esporre il sé più autentico della persona.
È un contesto all’interno del quale è possibile offrire aiuto ad altri che stanno vivendo esperienze simili alle proprie, sensibilizzando alla mutualità e alla solidarietà come antidoto all’isolamento. La chat, non in ultimo, può facilitare la nascita di nuove relazioni significative, che possono essere mantenute nel tempo.
È importante comunque tenere sempre in considerazione le problematiche e le fragilità delle relazioni che nascono in tali contesti, sia gruppali che di chat, come il rischio di identificazione e rispecchiamento, il rischio di idealizzazione positiva o negativa di sé stessi e degli altri, che può generare conseguenze ugualmente compromettenti del benessere psicologico dei partecipanti. Nelle chat inoltre tali rischi possono “esasperarsi”, per effetto della possibile ricerca di supporto online che può spingere la persona a considerare tale strumento come l’unico supporto disponibil
e, creando ulteriore isolamento, e divenire pertanto fonte di ulteriore malessere.

Lo stesso progetto di Psicologia In Chat nasce dall’intento di promuovere uno spazio virtuale in cui gli utenti, possono condividere le proprie esperienze, problematiche e pensieri. Inoltre si propone quale spazio entro il quale potere sviluppare, attraverso il confronto, la capacità di riflettere sulle proprie modalità di comportamento e aumentare le proprie capacità nell’affrontare i problemi, utilizzando le risorse personali.
Seppure non forniscono risposte o “formule magiche” precise sui propri problemi, i gruppi di auto mutuo aiuto online, facendo leva sulla possibilità di  essere innanzitutto immediatamente compresi, permette di intravvedere o ipotizzare dei percorsi possibili o almeno degli stimoli a non arrenderci mai e creare cambiamento.







Keith, N., Jenkinson, J. (2008). I gruppi di sostegno. Bologna: Il mulino.
Lavanco, G., Novara, C. (2012). Elementi di psicologia di comunità. Progettare, attuare e partecipare il cambiamento sociale. Milano: McGraw Hill Education
Di Maria, F., Falgares, G., Formica, I. Elementi di psicologia dei gruppi. Modelli teorici e ambiti applicativi. Milano: McGraw Hill Education
http://www.automutuoaiuto.it/

giovedì 16 aprile 2015

Le dipendenze .. in un corto

Le dipendenze spiegate attraverso un corto realizzato dallo Studio di animazione tedesco Film Bilder in cui è ben spiegato, in modo esemplificativo, il meccanismo che sottende le dipendenze 





martedì 14 aprile 2015

10 pregiudizi sullo psicologo



Ecco un'immagine semplice che spiega 10 dei più comuni pregiudizi verso lo psicologo, ricordando che il suo principale obiettivo è quello di promuovere il benessere della persona!
Infatti ci si può rivolgere allo psicologo non solo per "curare" certi disturbi della sfera psicologica, quanto anche e soprattutto per avere e promuovere una migliore comprensione di sè e della propria psiche, e raggiungere una condizione di benessere che permette di affrontare al meglio la propria vita!





mercoledì 8 aprile 2015

Il mobbing






Negli ultimi decenni ha riscontrato grande interesse il fenomeno del mobbing, sia dal punto di vista giuridico che psicologico, essendo queste le dimensioni prevalentemente interessate. È un fenomeno che può determinare una condizione di malessere non irrilevante per la persona che lo subisce, e che può interessare non solo la dimensione professionale e lavorativa, ma anche quella relazionale e la sua sfera privata. Questo perché il lavoro rappresenta un’attività che non solo possiede un valore strumentale, che permette all'individuo sia di procurarsi i mezzi economici e materiali necessari alla sua sopravvivenza, ma altresì consente di organizzare e dare senso alla propria esistenza. Il lavoro è dunque un’attività che racchiude in sé anche una significativa valenza psicologica, permettendo all'individuo stesso di strutturare la propria identità personale e sociale. Il lavoro, soprattutto nell'epoca contemporanea, fortemente industrializzata, garantisce un riconoscimento sociale, un ruolo, uno status estremamente correlato alla definizione del proprio Sé e delle relazioni interpersonali, anche queste fondamentali ai fini della costruzione della propria identità.
Il mobbing poi assume rilievo per i danni che è capace di creare, non solo sulla vittima che lo subisce ma anche sulla serenità e produttività dell’ambiente in cui si verifica, sui costi del sistema sanitario, del sistema legale e della società intera.

Cos'è il mobbing
Occorre preliminarmente chiarire come il mobbing non rappresenti un disturbo o una forma di psicopatologia, ma costituisce un fenomeno di natura relazionale e comunicativa. Presenta infatti le caratteristiche di un processo interattivo disfunzionale, contestualizzato in ambito lavorativo. La presenza di disturbi psicologici comunque non è esclusa, ma questi vanno considerati quale sua conseguenza o esasperazione di quadri clinici pre-esistenti.
Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob”, con il significato di aggredire, accerchiare, assalire in massa e sta a indicare una situazione di conflitto che si realizza nel contesto di lavoro, una strategia vessatoria caratterizzata da comportamenti per l’appunto vessatori, discriminatori,offensivi e persecutori, reiterati con una certa frequenza in modo sistematico - almeno una volta alla settimana per almeno sei mesi - a danno di uno o più lavoratore, che incidono negativamente sullo stato di benessere e sulla sua salute psico-fisica.
È una condotta lesiva della dignità professionale e umana del lavoratore, dignità da intendersi sotto l’aspetto morale, psicologico,fisico o sessuale.
Il mobbing dunque è che un processo che viene portato avanti attraverso una continua eliminazione dei mezzi e dei rapporti interpersonali che sono necessari al lavoratore per svolgere la sua normale attività lavorativa. Questi comportamenti mirano ad annientare psicologicamente la persona sia da un punto di vista professionale e sociale.

Come riconoscere una situazione di mobbing?
Per riconoscere una situazione di mobbing, la letteratura suggerisce la necessità che siano presenti alcuni specifici criteri, ovvero:
- le azioni hanno un preciso intento persecutorio nei confronti della vittima;
- le azioni sono di tipo vessatorio, molestanti, ostili e offensive;
- le azioni vessatorie devono essere realizzate all'interno del contesto di lavoro allo scopo di emarginare, ostracizzare e allontanare la vittima dal proprio ambiente di lavoro, non consentendole di esercitare un ruolo attivo sul lavoro;
- le azioni mobbizanti avvengono per almeno una volta a settimana per un periodo di almeno sei mesi (tranne nel caso del “quick mobbing”, in cui le azioni ostili si verificano nell’arco di tre-sei mesi, con una frequenza quotidiana);
- esiste una condizione di dislivello di potere tra i protagonisti, tale per cui la vittima si trova in una posizione di inferiorità costante rispetto a chi mette in atto in comportamento.

Sul posto di lavoro, le azioni mobbizzanti più frequenti consistono in:
- provocazioni, minacce;
- pettegolezzi e calunnie;
- boicottaggio dell’attivita’ lavorativa;
- retribuzione inferiore alle capacita’ e alle mansioni del lavoratore;
- demansionamento e assegnazione di compiti umilianti e disprezzanti;
- critiche;
- sanzioni amministrative o disciplinari immotivate;
- molestie sessuali.


Esistono comunque varie tipologia di mobbing, ovvero:
- bossing, quando viene messo in atto dal superiore gerarchico;
- mobbing orizzontale, quando viene messo in atto da colleghi di pari grado
- mobbing verticale, che è messo in atto da colleghi di grado superiore, e spesso anche di grado inferiore;
- doppio mobbing, quando il mobbizzato carica la famiglia di tutte le sue problematiche, e una prima fase di comprensione dei familiari segue una condizione di distacco che, quando la situazione si aggrava, porta ad un ulteriore isolamento dell'individuo;
- mobbing trasversale, messo in atto da persone al di fuori dell'ambito lavorativo che, creano ulteriore emarginazione e discriminazione nei confronti della vittima quando questi cerca appoggio o sostengo al di fuori del contesto di lavoro.



Le conseguenze
La vittima di mobbing può determinare una molteplicità di sintomi a seconda delle azioni subite e del modo  in cui la vittima risponde a queste sollecitazioni. In genere si riscontra una compromissione del funzionamento e dell’integrità psicofisica, riguardanti in particolare disturbi della sfera psicosomatica (perdita di concentrazione e di memoria, tachicardia, disturbi dell’apparato digerente, dolori), disturbi della sfera emozionale (agitazione, ansia), disturbi dell’umore (flessione del tono dell’umore), disturbi relazionali (compromissione della sfera relazionale e amicale), perdita dell’autostima, per effetto del dubitare della propria competenza, senso di incompetenza e tendenza all’autosvalutazione, sensi di colpa.
Se le azioni di mobbing sono reiterate con sistematicità sussiste anche la possibilità che si manifestino delle  patologie organiche e psicopatologiche legate a situazioni stressogene, come in particolare il disturbo dell'adattamento, il disturbo post-traumatico da stress, la sindrome depressiva.
Dal punto di vista specificatamente professionale, la persona vittima di mobbing può trovare difficoltà a relazionarsi nel proprio contesto di lavoro, che può essere vissuto negativamente come fonte di malessere e stress.Vi possono essere difficoltà nel recupero della propria professionalità, poiché l’inattività a cui si può andare incontro può produrre una perdita della propria identità professionale. Vi possono essere difficoltà nell'inserimento professionale nel post mobbing. Le difficoltà possono infine avere delle ripercussioni sulla vita sociale e familiare della vittima.






Cosa fare se si è vittima di mobbing?
Difendersi dal mobbing è possibile. Occorre comprendere la situazione, mediante il supporto di un esperto, e cercando di prendere subito le distanze, reagirvi senza cadere nella trappola dei sensi di colpa. Occorre trovare il coraggio di parlarne e informarsi per identificare possibili strategie d’azione. È possibile anche rivolgersi ai centri antimobbing presenti sul territorio.
Nel contesto di lavoro si possono seguire alcuni accorgimenti, utili ad una gestione non deleteria del fenomeno, come: avere pazienza, non scoraggiarsi, non isolarsi, cercare supporto dentro e fuori il contesto di lavoro, raccogliere elementi di prova delle vessazioni subite e soprattutto denunciare le violenze subite!

È importante che la vittima dell'aggressione non perda la calma di fronte ai tentativi di violenza, non essere impulsivi o aggressivi, e al contempo non accettare soprusi. È utile parlarne sia nel contesto di lavoro con il proprio superiore, oppure con il responsabile del personale almeno in un primo tempo, così come cercare aiuto e sostegno al di fuori nella propria famiglia o da un esperto. Il supporto di un esperto, di uno psicologo può essere utile al fine di comprendere meglio la situazione di disagio cui ci si ritrova, lavorare su se stessi, minimizzando eventuali conseguenze di malessere psicofisico.
Se la situazione risulta ingestibile si può richiedere il trasferimento "per motivi di salute" attraverso il medico aziendale (previsto dal decreto 626/94), facendosi consigliare e supportare anche da un legale o un esperto di medicina del lavoro.





Ege, H. (2002). Mobbing. Conoscerlo per vincerlo. Milano: Franco Angeli
Salvini, A., Ravasio A., Da Ros, T. (2008). Psicologia clinica giuridica. Firenze: Giunti
http://www.dirittierisposte.it/Schede/Lavoro-e-pensione/Licenziamento-e-dimissioni/mobbing_id1112562_art.aspx
http://www.ilmobbing.net/
http://www.intrage.it/Lavoro/difendersi_dal_mobbing


sabato 4 aprile 2015

LO SVILUPPO DELLA MENTE E LA QUALITA’ DELLA RELAZIONE

Vi proponiamo il seguente articolo del Dott. Alfredo Ferrajoli pubblicato su www.psiconline.it e nel testo:
 L'infanzia. Aspetti e problemi psicologici.
Luigi Di Giuseppe (a cura di)
Scritti di : A. Costantini, P. Boccia, A. Improta, P. M. Fiumani, C. Pernicola, A. Ferrajoli, L. Mastronardi, A. Bonomi, L. Angelini, E. Masini, M. C. Cirrincione, P. Ulissi, G. Casula, P. Pasco, R. Vignati. Edizioni Psiconline







LO SVILUPPO DELLA MENTE E LA QUALITA’ DELLA RELAZIONE
All’inizio della vita umana, non essendo presente nei bambini l’attività del pensiero, non possiamo parlare di una presenza mentale ma di un substrato emozionale, di un “sentire indistinto” che pone le basi per lo sviluppo della mente.
Gli studi in campo psicologico e psicobiologico affermano infatti la presenza alla nascita di predisposizioni e attività riflesse e istintuali. 
In particolare, gli studi condotti dalla psicologia prenatale in questi ultimi anni hanno sottolineato l’importanza della relazione esistente fra la madre e il bambino fin dai primissimi stadi di vita fetale (ma anche embrionale). Secondo alcuni ricercatori che si sono interessati dell’argomento, le emozioni della madre in attesa costituiscono le basi fondanti per lo sviluppo delle prime reazioni comportamentali dei nascituri.
In seguito, gli studi nell’ambito della psicologia neonatale hanno confermato l’importanza di un sano e corretto rapporto madre-bambino.
In particolare, Melanie Klein ha riferito sull’importanza dei meccanismi dell’introiezione e della proiezione attraverso i quali il bambino, rispettivamente, “manderebbe dentro di sé” porzioni di mondo esterno e “proietterebbe fuori” parti del suo mondo interno. Questo significherebbe che il bambino nel momento in cui “manderebbe fuori” il suo “sentire indistinto”, costituito da suoi sentimenti ed emozioni riguardo il suo mondo esterno (es. rabbia se mamma non c’è), nel contempo, introietterebbe l’immagine, di questo mondo esterno, influenzata dalle sue emozioni.
L’ambiente circostante, secondo questo approccio, se viene avvertito dal bambino carico di sensazioni negative potrebbe diventare “cattivo”, dal quale egli dovrebbe imparare a difendersi. Il bambino piccolo crede che egli stesso, compreso i desideri che prova, abbia un “potere magico”, causa di eventi significativi della vita.
Questo processo che viene definito anche con il termine di “acquisizione cognitiva” rimarrebbe presente sempre nel corso della vita umana, anche nella psicologia dell’adulto.
Margaret Mahler ha messo in rilievo il fatto che la relazione è il contrario della simbiosi. Questa studiosa ha introdotto il concetto di “fase simbiotica” che è una caratteristica normale nel bambino piccolo il quale è dipendente totalmente ed esclusivamente dalla madre.
Per lei questa fase è fisiologica e alla sua assenza sarebbero da imputare le varie forme di autismo. Questa tesi è ancora oggi tenuta in considerazione anche da studiosi che sottolineano l’importanza delle cause organiche nella genesi dell’autismo.
Secondo questo approccio, il bambino non sarebbe messo in condizione di sperimentare l’autonomia e l’indipendenza se ha avuto difficoltà nel momento in cui avrebbe dovuto sentirsi “tutt’uno” con la madre e sperimentare la dipendenza simbiotica.
Bowlby, un altro studioso, elaborò le sue ipotesi grazie anche agli studi degli etologi secondo i quali i piccoli dei mammiferi sono predisposti a mantenere la vicinanza con un individuo particolare. Tale comportamento, definito dall’etologia con il termine di imprinting, si verifica in una fase limitata dello sviluppo e molte osservazioni inducono a pensare che un meccanismo analogo sia presente anche nell’uomo.
Tale comportamento di “attaccamento”, secondo questo studioso, può svilupparsi anche negli esseri umani indipendentemente dalla soddisfazione dei bisogni biologici. A tal proposito egli fa riferimento anche agli studi dei coniugi Harlow che hanno dimostrato nei piccoli di scimmia una preferenza per il soddisfacimento dei bisogni di contatto fisico e calore legati all’affettività e alla qualità della relazione piuttosto che ai bisogni biologici legati dell’alimentazione.
“I risultati di questo esperimento smentirono addirittura la spiegazione tradizionale secondo cui il legame di attaccamento era collegato al piacere della suzione e al soddisfacimento della fame. In realtà la soddisfazione di un bisogno fisico amorevole, quale la tenerezza, nelle prime fasi della vita risultò essere un bisogno molto forte, anzi il fattore più importante nel legame di attaccamento. I piccoli di scimmia si affezionavano alla loro madre di pezza, cosa che non si verificava per le madri di ferro.
Nella formazione del senso di sicurezza e nell’adattamento del piccolo giocano anche altri fattori come una madre che si muove, che abbraccia, che risponde ai movimenti del piccolo e che lo stimola in tanti modi diversi” (A.O.Ferraris 2003).
Per Winnicott, la madre “sufficientemente buona” si preoccupa non solo di fornire cibo ma anche di soddisfare i bisogni di relazione, il “genitore quasi perfetto” di Bettelheim, è il genitore che commette degli errori, perché non è infallibile ed è in grado di imparare dagli errori, riflettere e riparare, sapendo che il suo lavoro è destinato a molteplici frustrazioni.
Per questo autore, l’errore è un elemento importante della nuova genitorialità è dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli, l’errore in questo senso è risorsa e forma di apprendimento che serve per “riprogrammare” altre scelte. 
L’ipersensibilità materna primaria di cui ci riferisce Winnicott è quella sorta di preoccupazione sana della madre che nutre lo sviluppo della mente del suo bambino.
La madre “sufficientemente buona”, avverte questo autore, è quella madre che sa concedersi di “regredire”, di diventare “piccola, piccola”, come il suo bambino, per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni. 
In questo senso, la mamma “sciocca” è la mamma che gioca con il suo bambino godendo del gioco che lei fa con lui, e più questo atteggiamento è presente, maggiormente ella è in empatia con suo figlio e lui in sintonia con lei.
Questa sensibilità materna, secondo molti autori, andrebbe a nutrire lo sviluppo della mente dei bambini; è chiaro che, allora, in questo contesto, lo sviluppo di “una mente che pensa”, di una mente, cioè, capace di cogliere e sviluppare un apprendimento di tipo cognitivo ha inevitabilmente bisogno di “una mente emozionale”, capace di sentire le esperienze della vita intorno a sé e di godere del piacere di un ambiente a lei esterno.
Nel bambino in età precoce (ma non solo) lo sviluppo di una mente emozionale è fondamentale per lo sviluppo di una mente capace di pensare. 
Da ciò si evince che molte forme di ritardo cognitivo o di difficoltà di apprendimento, presenti nei bambini potrebbero essere “curate” meglio se fosse presente, o di sviluppare, qualora non fosse presente, la capacità materna di prendersi cura dei bisogni emozionali dei figli.
In questo senso si parla oggi di interventi rivolti alla genitorialità, al prendersi cura, da parte dei genitori, del soddisfacimento dei bisogni dei figli.
All’inizio della vita umana l’essere nutriti equivale all’essere amati, il bisogno biologico legato all’alimentazione è presente insieme a un altro bisogno, anch’esso fondamentale, quello di essere amati, nutriti di amore, di essere desiderati, voluti, accettati per quello che si è.
Una madre che è capace di godere delle gioie dell’allattamento, di comunicare amore al suo bambino mentre fornisce a lui il latte, che lo guarda con uno sguardo particolare che solo lei sa quanto amore esso esprima, è una madre che sta creando le basi affinché avvenga lo sviluppo della “mente emozionale”, garanzia per uno sviluppo di una “mente cognitiva”.
Dice Winnicott che una madre “sufficientemente buona” permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta, in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dall’operazione di contenimento e di conseguente bonifica che lei ne fa.
Ekstein afferma che il seno materno è il primo programma di apprendimento del lattante e base fondante per gli apprendimenti successivi.

L’importanza della relazione educativa
La relazione docente–discente non è immediatamente sovrapponibile alla relazione della madre con suo figlio ma “ripete” in qualche modo la situazione genitoriale e si possono rilevare dimensioni emotive, affettive e cognitive che riguardano entrambi i contesti educativi.
In questo senso, l’attività educativa successiva, esercitata da parte della scuola, in ogni suo ordine e grado, sarebbe, secondo Blandino e Granirei (1995), evocatrice della relazione emotiva primaria avuta con la figura materna.
D’altra parte, il rapporto madre-bambino, se visto da vicino, può essere descritto come il rapporto di insegnamento-apprendimento per eccellenza e prima forma di interazione che il bambino ha con il mondo.
“Se l’obiettivo del lavoro dell’insegnante è l’apprendimento, la funzione docente evoca la funzione genitoriale di contenimento e mentalizzazione. Da questo punto di vista la funzione docente è una funzione di pensiero che non ha a che fare solo con le competenze disciplinari e didattiche o con la quantità e qualità dei contenuti trasmessi alla classe, bensì si sviluppa all’interno di uno spazio relazionale in cui è necessario cogliere e pensare soprattutto le emozioni, i vissuti e i sentimenti che sostanziano le modalità di apprendimento di chi apprende” (Blandino, Granieri 1995).
I nostri allievi, i nostri figli, ma anche i nostri utenti potranno imparare da noi, “apprendere”, come si dice a scuola, “digerire”, “assimilare”, “incorporare”, come si direbbe con un linguaggio più vicino alla psicobiologia, a patto che noi siamo per loro delle “persone credibili”, individui che si sappiano rapportare con loro all’interno di relazioni sane e significative. Solo in questo modo, bambini e ragazzi, potranno imparare da noi e la qualità del loro apprendimento sarà durevole e destinato a “segnarli dentro”, perché fondato su una relazione partecipata e sentita dentro.
Come il genitore, anche il docente prepara il cibo (lezione) che arriverà a destinazione solo se sarà fornito nel modo giusto e che lo studente “assimilerà/interiorizzerà/digerirà” se sarà “calato/calibrato” sulla sua realtà di allievo, in generale, sul suo mondo interno,
Un tipo di apprendimento così raggiunto, sarà “nutritivo” perché destinato a far crescere. Spesso, invece, sia i genitori che gli insegnanti, a scuola, sono concentrati verso il raggiungimento di un apprendimento di tipo “prescrittivo”, basato su regole esterne che non si possono mettere in discussione, imposte dall’esterno piuttosto che conquistate attraverso un sano rapporto dialogico centrato sull’incontro fra “due menti che pensano”.
Un apprendimento così concepito, sarà allora meramente “restituivo”, funzionale al risultato, e i ragazzi saranno portati a concentrarsi esclusivamente sulla “performance”, e una volta superata la prova metteranno senza difficoltà nel cassetto del dimenticatoio gli apprendimenti così ottenuti.
L’apprendimento significativo, che “lascia traccia”, si realizza – ed è di migliore qualità perché contiene la parte emozionale – quando c’è l’incontro tra “menti che pensano”.
In questo contesto, quindi, tutta l’attività educativa sarà tale solo quando, insieme alla crescita dei ragazzi si potrà realizzare la crescita di noi adulti e questo potrà avvenire solo se gli adulti sapranno concedersi la possibilità di imparare da chi per definizione deve solo apprendere.
Peraltro, secondo gli ultimi studi in campo neurofisiologico, lo sviluppo delle funzioni cognitive dipenderebbe dalle funzioni emotive e affettive, se queste ultime trovano un ambiente realizzante potranno far crescere nel bambino la possibilità di aprirsi al mondo e alla curiosità, di apprendere dall’esperienza.

Le emozioni a scuola
L’adulto che insegna attraverso la considerazione delle emozioni dei suoi allievi, pone attenzione alla cura degli aspetti relazionali legati alla sua attività, egli avrà più possibilità di arrivare a far parlare “da dentro” il mondo dei ragazzi e a dar voce al loro mondo interno.
Così, ad esempio, un insegnante che si dovesse trovare a spiegare la profondità emozionale del pensiero di Giacomo Leopardi, non potrà fare a meno di domandarsi (e, forse, anche domandare) che tipo di emozioni stanno provando gli allievi.
Non è possibile promuovere un apprendimento senza capire cosa succede dentro, emotivamente, nel momento in cui si interagisce con allievi o figli.
Nella pratica didattica attuale, non raramente, purtroppo, i fattori emotivi vengono considerati un ostacolo al lavoro delle funzioni cognitive, privando in tal modo i ragazzi di pervenire ad un apprendimento significativo.
Secondo Carl Rogers, la scuola non sarebbe capace di occuparsi della crescita globale di bambini e ragazzi ed educare la persona intera, ma si occuperebbe dell’allievo solo “dal collo in su” come se questi fosse una testa vagante e non una persona.
Se l’insegnante in questo caso avrà le caratteristiche di un “insegnante sufficientemente buono”, potrà arrivare a relazionarsi con la parte profonda dei suoi allievi, se invece egli non ne sarà capace sarà destinato a svolgere il suo lavoro senza passione e forse anche senza soddisfazione esponendo se stesso al rischio di cadere in burn-out.
L’insegnante che pone cura non solo riguardo allo sviluppo di competenze cognitive e razionali, ma anche all’aspetto relativo alle emozioni è un adulto che pone le basi per un apprendimento globale dove il ruolo dei sentimenti è senz’altro significativo per una comprensione più profonda.
Peraltro, il pensare con razionalità, e quando l’attività del pensiero è dissociata dal sentire, può generare mostri e non è possibile promuovere un apprendimento senza sapere che cosa succede dentro nel momento in cui si interagisce con gli allievi. Facendo riferimento alla doppia funzione della madre, che nutre con il latte e con tutta se stessa (emozione e trasporto partecipativo) il suo bambino, potremmo dire che una scuola attenta non dovrebbe privilegiare un aspetto a scapito dell’altro poiché questo potrebbe provocare una scissione tra emozione e intelletto che dovrebbero invece andare sempre d’accordo e a braccetto.
La scuola attuale, invece, privilegiando un apprendimento di tipo intellettuale riprodurrebbe la scissione tra sentimento e cognizione, tra cuore e ragione, tra mente e corpo e sarebbe diventata come quella madre che si prende cura del suo bambino solo attraverso la somministrazione del suo latte senza preoccuparsi della qualità della relazione che ha con lui e dei bisogni emotivi del suo bambino.
Tra l’altro, non dimentichiamo che l’apprendimento riuscito non è tale quando si hanno più conoscenze ma quando si è aumentata la capacità di riceverle; non si tratta cioè di un fatto quantitativo ma di una realtà qualitativa; arrivare insieme a costruire una “mente che pensa” è più importante che arrivare a costruire una “mente che riproduce”.
Un vero apprendimento non produce “sapere restituivo” e nozionistico ma conoscenza autentica.
Diceva Kant ai suoi allievi “Da me non imparerete filosofia, imparerete a filosofare, non a ripetere pensieri, ma a pensare” nel senso che non è importante, secondo questo autore, la quantità delle nozioni immagazzinate ma la disponibilità ad apprendere, ad essere curiosi e motivati, aperti all’esperienza.

Ascoltare, ascoltare e … ascoltare
La funzione della mente del docente e dell’adulto, anche del genitore, è quindi, secondo questo modo di vedere, una funzione di ascolto, di consapevolezza di ciò che accade nella relazione, ma anche dentro di noi in un rapporto continuo fra noi e l’altro, con noi e con l’altro, costantemente centrati su quello che si sente, su quello che si fa, su come lo si fa; questa strada risulta percorribile solo se si è capaci di sentire e di ascoltare, ascoltarsi e dirsi sempre la verità.
Compito dell’adulto è quindi quello di sollecitare nell’allievo o nel figlio l’accesso “alla meraviglia” e accompagnarlo, assisterlo in questo cammino di crescita che lui poi percorrerà autonomamente.
Se le dinamiche emotive possono essere verbalizzate, espresse, mandate fuori dal mondo interno di bambini e ragazzi, queste potranno essere vissute come meno opprimenti e condivise con altri che hanno potuto provare sentimenti simili.
Meltzer e Harris ( ), assegnano a genitori e insegnanti, sia pure con valenza diversa, il compito di cercare di farsi strada “dentro il mondo in cui abita l’individuo”.
Si tratta di poter ascoltare che cosa, spesso, gli allievi e i figli comunicano riguardo al proprio mondo interno. Così comportamenti aggressivi, incapacità a concentrarsi, tentativi di evadere il compito, possono, se non respinti o condannati moralisticamente, condurre a comprendere che le difficoltà di apprendimento spesso non sono altro che difficoltà di relazione con sé e con gli altri.
Non serve, quindi etichettare come “pigri”, “indisciplinati”, “svogliati”, ragazzi che effettivamente si comportano come tali. 
La psicologia del profondo, al contrario della psicologia del comportamento, si interroga sulle dinamiche sottese, che stanno dietro a comportamenti ritenuti disadattivi; secondo questo approccio, questi comportamenti non sono altro che modalità difensive che l’individuo mette in atto per relazionarsi con se stesso e con gli altri.
Apparire svogliati, chiusi in se stessi, indisciplinati o aggressivi, possono essere i diversi e personali tentativi di risolvere il proprio disagio personale.
Ovviamente questi tentativi sono improduttivi e rischiano di reiterarsi all’infinito in una prospettiva di insuccesso, tanto più se l’insegnante o il genitore collude identificando l’allievo o il figlio con le sue modalità difensive.
Genitori e insegnanti potrebbero, allora, impegnarsi a stabilire con i loro ragazzi o figli, interazioni sane e significative ponendosi come mediatori tra essi e i loro disagi esistenziali, aiutandoli ad elaborare i contenuti emotivi della frustrazione, riconoscere le ansie e aiutarli ad interagire con esse affinché non possano sovrapporsi fra loro e l’apprendimento quali elementi inquinanti il pensiero.
Secondo Blandino e Granieri, una qualunque attività finalizzata alla crescita delle persone ottiene dei risultati quando è organizzata in modo da promuovere l’integrazione, nella mente, delle sue varie parti e in particolare quelle problematiche o “cattive” che invece, usualmente, nella scuola vengono espunte o stigmatizzate moralisticamente.
L’adulto “sufficientemente buono” – di winnicottiana memoria – potrà, allora, essere capace di “ascoltare” se saprà concedersi la possibilità di poter prendere qualcosa dall’altro, anche se quest’ultimo è suo figlio o un suo allievo o un utente.
Questa modalità di ascolto è possibile solo se l’adulto è aperto a compiere “l’ascolto di sé”, l’ascolto del suo mondo interno. 
“Cosa mi succede dentro”, “cosa si sta muovendo dentro di me”, “quali emozioni mi suscita l’ascolto delle emozioni dell’altro?”, sono solo pochi esempi che illustrano una verità fondamentale: la verità che per ascoltare in profondità abbiamo bisogno di “fare silenzio dentro”, per ascoltare l’altro abbiamo bisogno di “ascoltarci”, abbiamo bisogno di “fare spazio”, “essere dentro di noi”; solo dopo questa operazione, questo primo filtro, possiamo concederci di tentare di effettuare un ascolto significativo.
L’ascolto così inteso si apre all’incontro, ad un incontro di tipo particolare dato dalle profondità di mondi interni diversi, personali, che insieme possono incontrarsi per condividere pensieri, emozioni, sentimenti ed esperire affetti.
L’ascolto dell’altro è realizzabile solo se c’è dentro di noi la possibilità di incontrare il mondo dell’altro (la sua visione, personale, del mondo, il suo mondo interno, le sue emozioni) e, spesso, l’ascolto profondo è possibile se siamo capaci ascoltare “quello che gli altri non dicono” attraverso le parole ma comunicano attraverso altri canali.
Va da sé che questo tipo di ascolto non si può improvvisare, né è di facile realizzazione. Non a caso Freud ammoniva che l’attività educativa così concepita è difficilissima e soggetta ad errori, egli diceva che ci sono tre operazioni costituzionalmente “impossibili” da svolgere: educare, governare, psicoanalizzare.
Per ascoltare non basta “aprire orecchie” e percepire parole, dobbiamo compiere lo sforzo di metterci nei panni dell’altro cercando di sentire dentro di noi il messaggio e le emozioni che l’altro ci vuole comunicare. Dobbiamo renderci disponibili a sentire dentro di noi l’esperienza dell’altro al fine di entrare in una relazione profonda con lui, in modo autentico.
In questo senso, quindi, ascoltare non vuol dire solo raccogliere stimoli sonori, ma vuol dire soprattutto rielaborare questi stimoli per comprenderli in profondità e questa attività coinvolge la persona nella sua totalità.
“L’uomo ha due orecchie e una bocca sola perché dovrebbe più ascoltare che parlare” così recita un vecchio proverbio danese. Ascoltare non è percepire solo parole, ma anche i pensieri, lo stato d’animo, il significato personale e più nascosto del messaggio che ci viene trasmesso.
Per ascoltare bisogna esser-ci, “essere con noi insieme all’altro”, per ascoltare è necessario che ci si stacchi dai propri interessi e dai propri schemi di pensiero e di vita per avvicinarsi gradualmente e con rispetto e umilità nel mondo dell’altro.

Il conflitto innegabile
Con questo non si vuole però sottovalutare o negare la realtà del conflitto, esso esiste nei rapporti umani ed è inevitabile; anch’esso si contraddistingue come una forma di relazione con l’altro ed è anch’esso risorsa in quanto permette di apprendere un nuovo modello educativo basato sulla negoziazione che permette, dopo certo impegno, di migliorare le nostre capacità relazionali.
D’altra parte, dove esiste una relazione può esserci anche conflitto, dove non c’è conflitto non esiste neanche una relazione ma conformismo e mancanza di confronto.

Pasqua 2015





 Psicologia-In-Chat Augura una felice Pasqua a tutti gli utenti della chat, ai lettori che ci seguono e ai Psicologi/Psicoterapeuti che ci sostengono con la loro professionalità nel portare avanti questa iniziativa. Che questi giorni di festa possano regalarvi la serenità che cercate con il cuore e con la mente.


venerdì 3 aprile 2015

STALKING :COS' E' E COME INTERVENIRE SE SI E' VITTIME O PERSECUTORI

STALKING: COS'E' E COME INTERVENIRE SE SI E' VITTIME O PERSECUTORI




Ci siamo già occupati di dipendenza affettiva, ma all'interno di questo fenomeno spesso la persona dipendente mette in atto dei comportamenti che potrebbero ravvisare analogie con i comportamenti tipici del fenomeno di "stalking" ed è per questo che abbiamo deciso di presentarvi il seguente articolo sullo STALKING E COME INTERVENIRE SE SI E' VITTIME O PERSECUTORI.

STALKING è un termine inglese che si riferisce al mondo della caccia, infatti significa letteralmente "fare la posta alla preda". Il significato si è in seguito esteso al comportamento insistente, intenzionale e malevolo di seguire e molestare un'altra persona. Il fenomeno è molto preoccupante, si pensi che in Italia una persona su cinque ne è vittima e che il dato più allarmante è che il numero di coloro che per paura, vergogna o ignoranza non denunciano è molto più superiore.
 Per gli studiosi del fenomeno, lo stalking è caratterizzato da almeno tre elementi:
  • un soggetto, lo stalker, che investe una morbosa attenzione ideo affettiva a una determinata persona;
  • una sequenza di comportamenti e azioni come: atti di sorveglianza, controllo, ricerca del contatto;
    i comportamenti tipici dello stalker sono: continue telefonate alla vittima, spedisce lettere o realizza scritte oscene in luoghi visibili dalla vittima, danneggia oggetti appartenenti alla vittima, effettua pedinamenti o appostamenti sotto casa o sul posto di lavoro della vittima, violazione di domicilio, minaccia di violenza fisica o sessuale fino a comportamenti estremi come tentato omicidio o omicidio.
  • la persona designata dallo stalker, la stalking victim , che percepisce questi atteggiamenti come lesivi della propria libertà, vivendoli come una minaccia per la propria persona e sviluppando una serie di paure, angosce e talvolta ulteriori problematiche psicologiche.
Inizialmente la stalking victim tende a perdonare e giustificare lo stalker, soprattutto quando tra i due è intercorsa una relazione sentimentale o affettiva importante. La vittima pensa che la situazione si risolverà col tempo. Si rivolge alle autorità solo quando il molestatore è divenuto veramente pericoloso o ha già messo in atto episodi di violenza fisica sulla vittima.Lo stalking o comunque le condotte persecutorie sono rilevanti penalmente in molti ordinamenti, cioè è considerato reato in diversi paesi del mondo. In Italia le condotte tipiche dello stalking configurano il reato di "atti persecutori"(art.612-bis c.p.), introdotto con il D.L 23-02-2009 n.11( decreto Moroni), convertito in legge con modifiche della legge 23-04-2009 n.38. La legge punisce questo reato con una pena che va dai sei mesi ai quattro anni di reclusione. A ciò si aggiungono alcune norme accessorie, ossia l'aumento di pena in caso di recidiva o se il soggetto perseguitato è un minore.
Gli studiosi hanno individuato alcune tipologie di stalker, tra cui:
  • il "risentito", caratterizzato da rancori per traumi affettivi ricevuti nel suo passato a suo avviso ingiustamente (tipicamente un ex-partner di una relazione amorosa);
  • il "bisognoso d'affetto", desideroso di convertire a relazione sentimentale il suo rapporto con la persona designata; insiste incessantemente nella convinzione che prima o poi l'oggetto delle sue attenzioni si convincerà;
  • il "corteggiatore incompetente", che opera stalking in genere di breve durata, risulta opprimente e invadente principalmente per "ignoranza" delle modalità relazionali, dunque arreca un fastidio praticamente preterintenzionale;
  • il "respinto", rifiutato dalla vittima, caratterizzato dal voler contemporaneamente vendicarsi dell'affronto per il rifiuto subito e insieme riprovare a riprendere una relazione con la vittima stessa;
  • il "predatore", il cui obiettivo è di natura sessuale, trae eccitazione dal dirigere le sue mire a vittime che può rendere oggetto di caccia e possedere dopo avergli incusso paura; è una tipologia spesso riguardante voyeur e pedofili.
Il comportamenti di stalking viene attuato per varie motivazioni, tra le quali: recupero di una relazione, vendetta per i torti subiti, dipendenza affettiva, desiderio di controllo sulla vittima. A volte il comportamento messo in atto dallo stalker è associato a disturbi di personalità presenti in esso, altre volte scaturisce da un'erronea capacità di relazionarsi nel rapporto di coppia ed è per questo che per comprendere fino in fondo tale fenomeno, gli studiosi ritengono che oltre a studiare la personalità dello stalker si debba studiare la relazione di coppia.

SUPPORTO PSICOLOGICO ALLA VITTIMA DI STALKING:

lo stalker produce nella vittima turbamenti che ledono l'equilibrio fisico e psichico di quest'ultima. In seguito al trauma nella vittima si può riscontrare "uno stato di negazione", ovvero un meccanismo di difesa che serve ad allontanare il pensiero da quei tragici momenti. Nel tempo, però, tali rimozioni si scontreranno con il bisogno di ricerca della realtà, in seguito al quale la vittima è pervasa da sensi di colpa. La vittima ripercorre mentalmente tutti i fatti cercando di capire se poteva prevenire quanto accaduto. È in questa fase che si deve accompagnare la vittima da un professionista che guiderò la vittima in un percorso di riorganizzazione dell'evento traumatico. Attraverso l'ascolto, il terapeuta aiuterà la vittima a rafforzare il suo sistema motivazionale e a riconquistare l'autostima perduta. Spesso l'intervento equivale a quello seguito per il disturbo post traumatico da stress (ripercorrere l'evento traumatico con sogni, ricordi ricorrenti e intrusivi come se si stesse ripetendo determinando disagio psicologico).

Numeri utili in caso di stalking :
oltre ai numeri delle forze dell'ordine: 112-113 vi indichiamo alcuni num utili:
  • 1522 Il numero è attivo 24 ore su 24 per tutti i giorni dell'anno ed è accessibile dall'intero territorio nazionale gratuitamente, sia da rete fissa che mobile, con un'accoglienza disponibile nelle lingue italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. Le operatrici telefoniche dedicate al servizio forniscono una prima risposta ai bisogni delle vittime di violenza di genere e stalking, offrendo informazioni utili e un orientamento verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale.
  • 066535499 numero dello sportello ASTRA (anti stalking risk assessement).
  • 0644246573 numero nazionale dell'associazione di Psicologia e Criminologia.


SUPPORTO PSICOLOGICO RIVOLTO ALLO STALKER:

l'aiuto psicologico relazionale, strumentale, offrire uno spazio di supporto e cambiamento, è fondamentale per la vittima quanto per il persecutore. Non si deve dimenticare che lo stalker è una persona che ha bisogno d'ascolto e di input verso il cambiamento. La sua condotta aggressiva è un segnale di un'incapacità di autoregolazione. Nel percorso terapeutico si cerca di favorire l'incremento dell'empatia nei confronti della vittima cercando di favorire il decentramento dello stalker e focalizzare l'impatto emotivo che il suo comportamento ha sull'altro; si cerca di fargli acquisire maggiore consapevolezza rispetto agli scopi che intende raggiungere attraverso le condotte moleste, migliorando le sue abilità sociali e riducendo il suo eventuale isolamento.






Riferimenti bibliografici:
Curci P. Galeazzi G. M. Secchi C. La sindrome delle molestie assillanti (stalking). Bollati Boringhieri 2003
Gargiullo B. C: Damiani R. Lo stalker ovvero il persecutore in agguato. Classificazioni, assessment e profili psicocomportamentali. Franco Angeli editore 2008
Lattanzi M. Stalking aspetti psicologici sociologici e giuridici. AIPC Editore 2009
Lattanzi M. Lo stalking: il lato oscuro delle relazioni interpersonali. Ediservice 2003
Oliviero Ferraris A. Lo Stalker: il persecutore. In Psicologia contemporanea num 164/2001
www.pariopportunità.gov.it